Percorrendo questo ultimo lembo dell’italica penisola, prima di abbandonare la terraferma per farsi abbracciare dal magnifico specchio del Mediterraneo, ci si rende conto perché le fu assegnato il nome Calabria: kalos e brion ovvero bella e rigogliosa.
La campagna ricca di uliveti e di agrumeti che dolcemente dipanano sulla spiaggia del Mar Jonio, rappresentano un sinedrio armonioso che postula inevitabilmente il buon umore.
In quella che fu uno dei cuori pulsanti della Magna Græcia, le aspettative non sono tradite: anche il grecale che soffia sereno e rinfresca la già salubre aria è la giusta cornice alla meta che a breve ci prefissiamo di raggiungere.
Orlando Sculli, professore di Latino e Greco in pensione, ci attende ad un bivio che permette di abbandonare la strada principale, la vecchia e logora SS 106, per raggiungere una campagna solitaria, solo apparentemente lasciata a se stessa.
Il prof. Sculli, un po’ come il servo di Trimalcione, vuole che si entri nel suo podere con il piede destro, scruta ed osserva con quello stile di chi è nato a queste latitudini e comprende tanto bene il valore della sacra ospitalità.
“Questo è il mio regno” esordisce e nello stesso tempo lascia far capire quanto quel regno sia per lui la sua vita. “Ho sin da piccolo capito quanto il rispetto della natura fosse fondamentale per poter crescere con quei valori che sono la base di una vita all’altezza della sua divina sacralità” – prosegue davanti alla richiesta di come sia nata la voglia e la passione di recuperare filari perduti – “quando ho capito che un certo mondo contadino fatto di rispetto, di riti antichi e di tradizioni secolari stava scomparendo, ho capito che era il momento di tutelarlo per la terra stessa e per i nostri figli“.
Il buon Orlando, da una vita preserva semi ed alberi secolari che hanno sfamato popolazioni intere e sono riusciti a vivere a epidemie, carestie, guerre. “La cosa cui però mi sono dedicato di più è la vite, perché la vite rappresenta nel mondo della flora quello che nel mondo della fauna rappresenta il cane: il miglior amico dell’uomo ed in quanto tale necessita delle sue cure e delle sue attenzioni“.
Racconta, facendo emergere il lato più accademico, che i vitigni del Mediterraneo Antico, stando alle risultanze delle indagini ,condotte con metodo scientifico su reperti con presenze di marcatori molecolari di vini, prodotti a partire dalla più remota antichità, classificano il primo centro di domesticazione della vite – il riferimento è alla “vite silvestre” che cresceva spontaneamente – l’Anatolia centrorientale e la Mesopotamia settentrionale (Primo-A), seguito dal Primo-B, localizzato nel Caucaso e nella regione transcaucasica.
Il Secondo Centro–A fu rappresentato dall’area dei Balcani meridionali e da quella egea, includente la penisola ellenica con le sue isole, mentre il Secondo Centro-B fu rappresentato dalle zone circostanti il Ponto (Mar Nero).
Il Terzo si riferì all’Italia Meridionale, il Quarto alle penisola iberica, il Quinto alla Francia Meridionale e all’Italia settentrionale ed il Sesto all’Europa centrale.
Dall’Italia meridionale che costituì il Terzo Centro di domesticazione della vite – non a caso in quel tempo la regione fu anche chiamata Enotria – furono diffuse nel resto d’Italia ed altrove, al tempo dei romani, tante varietà di viti.
Il patrimonio viticolo calabrese venne arricchito, poi, nel periodo bizantino, quando giunsero in Calabria i coloni provenienti da ogni parte dell’impero, che era, come si può immaginare, multietnico.
Si sa, il Mediterraneo era e rappresentava il centro nevralgico di ogni scambio, culturale e commerciale e non è difficile pensare quanta importanza abbia avuto nell’influenzare la vita a venire.
Questa molteplicità etnica, di cui al momento evidenziano le loro peculiarità culturali solo gli albanesi arrivati in Calabria dopo la conquista turca, la troviamo con l’arrivo dei greci della Bovesia, gli occitanici, che hanno il loro centro più importante a Guardia Piemontese, che discendono da coloro che scapparono dalle valli piemontesi, in quanto perseguitati per motivi religiosi.
Di tante altre etnie si è persa ormai memoria e semmai di esse permane la testimonianza nella toponomastica: Judario per gli ebrei, la Rocca degli Armeni o Armenia per gli armeni, Schiavoni per i croati, dalmati e sloveni, Malta o Martisi per i maltesi. Tutti i partecipanti a questa diaspora preparavano per tempo il viaggio e portavano con loro specialmente semi e tralci di viti (ecco l’amico dell’uomo). Inoltre, la dedica di molte chiese a Santa Caterina d’Alessandria (d’Egitto ) indica che molti egiziani si rifugiarono in Calabria, dopo la conquista araba, mentre il preziosissimo Codice Purpureo di Rossano denuncia la fuga dalla Siria di una comunità di siriani; nelle miniature del codice vengono evidenziati addirittura buoi ancora presenti in Siria prima dell’attuale guerra civile.
Ogni territorio possedeva delle viti particolari: l’area dei greci, la più importante, per la presenza dei vari tipi di Greco, mentre l’area dei maltesi è caratterizzata dalla presenza delle Malvasie, ed aggiunge il buon Orlando che “si pensa che la Malvasia sia stata selezionata a Malta, prima di diffondersi nel Peloponneso da dove i veneziani la prelevarono da Monombasia da cui Malvasia e la diffusero nel Mediterraneo occidentale”.
Orlando a questo punto mi passa un’arancia, qui chiamata “portugallu“, lascio all’immaginazione di chi legge il perchè, tardiva o di ovale calabrese che matura in estate, mi riferisce che “un discorso a parte bisogna farlo con il Palmaziano, di cui parla nel V sec. d. C. Cassiodoro di Squillace (antichissimo sito di importanza storica enorme, cha da il nome all’attuale golfo ubicato nella provincia di Catanzaro) ministro di Teodorico, re degli Ostrogoti: egli lo accosta addirittura al Gazeto, il vino di Gaza . Proprio Cassiodoro è da considerarsi l’intenditore di vini per eccellenza nel Tardo Antico ed egli ricercava per la corte ostrogota di Ravenna e per Teodorico i migliori vini d’Italia e fu il primo in assoluto ad evidenziare quel processo che in seguito diventerà l’Amarone.” La Calabria tutta, quindi, divenne il rifugio di tante varietà di viti provenienti da tante regioni del Mediterraneo antico che fino a poco tempo addietro prosperarono in sicurezza, in attesa che qualcuno le salvasse dall’estinzione.
Proprio sulla scorta di tale potenzialità, è stato possibile al Prof Orlando Sculli in 28 anni di attività di ricerca fisica, prima che le capre a pascolo brado distruggessero il retaggio del passato, radunare in uno spazio esiguo (un ettaro), derivante però da tre vigne abbandonate, le viti forse più importanti del Mediterraneo antico nel numero di circa trecento, tra accessioni, genotipi e biotipi. Sono state esplorate in modo non sistematico circa 17 enclaves, 14 della provincia di Reggio e tre di quella di Catanzaro.
Il suo cruccio sta tutto in una breve e salomonica frase “se le istituzioni anche locali avessero utilizzato i fondi ingenti sperperati, anche marginalmente, alla salvaguardia del germoplasma di tutta la Calabria, essa avrebbe mantenuto il suo invidiabile patrimonio e lo avrebbe continuato a diffondere all’umanità, come fece in passato.” Il suo auspicio è che questa opera prosegua nel rispetto della sua passione.
Il crepuscolo, splendido e inesorabile come l’attimo di felicità, giunge: volgiamo un ultimo sguardo a questo giardino della memoria e l’occhio, fugace, cade su una piccola chicciola, distante, quasi a ricordarci come la sua presenza rappresenti da sempre l’attaccamento alla propria terra, alle proprie tradizioni, portate lentamente nel suo guscio, la sua casa, ma anche la lenta evoluzione della specie: nessuna immagine avrebbe potuto essere più evocativa.
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