Metrica

Dante

Dante

Dante sapeva che aver svegliato il padrone per la quinta notte di fila rappresentava uno spartiacque nella sua vita.
Sebbene avesse solo un anno, aveva imparato le abitudini di quell’uomo oscuro e violento che non perdeva occasione per maltrattarlo e nutrirlo, in uno strano gioco a doppio filo che alternava benevolenza e crudeltà. Non capiva razionalmente i motivi di quel comportamento; si limitava a coglierne i segnali e, di rimando, a farsi carico delle conseguenze.
Le botte erano arrivate presto. All’inizio Dante ne aveva tratto solo dolore; in seguito, forza. Tanto l’agire di Ludovico (questo era il suono che sentiva pronunciare dall’energumeno che lo aveva portato in casa di Ludovico quando si rivolgeva la suo padrone) era espresso con bastonate e urla, tanto lui ne ricavava forza e non abbassava la testa. Aveva imparato che era meglio prendere una scarica di botte e tenere il muso alto, anziché dimostrarsi supplichevole di cure e attenzioni.
La prima volta che Ludovico lo aveva lasciato all’aperto senza mangiare, per due giorni, era estate. Dante aveva fatto la pipì in casa, per ripicca verso una legnata inaspettata che il padrone gli aveva dato in quanto non si era spostato al primo richiamo dal passaggio tra salotto e cucina. La sedia a rotelle di Ludovico era ferma, mentre questi gli diceva di spostarsi. Dante era mezzo addormentato. Il caldo esterno, in quei giorni di luglio, era soffocante, e lui amava starsene rannicchiato sotto lo split del climatizzatore, posto sopra la porta che separava le stanze. Al terzo richiamo, Ludovico aveva preso un bastone che usava per avvicinarsi gli oggetti in casa e lo aveva calato sulla schiena dell’animale. Gli diede un colpo secco, senza preavviso. Un’ora dopo, Dante fece pipì sotto la porta. Quando Ludovico vide l’urina, prese l’animale per il collo e lo mise fuori casa. Era pieno pomeriggio. Dante rimase all’esterno senza cibo fintantoché i morsi della fame furono superiori ai dolori per la botta. Quando Ludovico lo fece rientrare, Dante trovò una ciotola ricolma di crocchette ad aspettarlo. Vi si avventò con ingordigia, divorando il cibo in meno di un minuto. Lo sguardo di Ludovico, mosso dai versi dell’animale, mentre questi spazzolava la ciotola, tracimava di soddisfazione. Dante non avrebbe saputo spiegarselo in modo diverso ma era lo stesso sguardo che lui, dopo una copiosa mangiata che a cadenze regolari il padrone gli faceva trovare, sentiva di assumere una volta che fosse stato satollo e contento. Le palpebre si chiudevano attorno agli occhi e le labbra si rilassavano. Dante detestò cogliere quell’espressione nel padrone.
La seconda volta che Ludovico lo mise fuori di casa, a inizio settembre, per punirlo stavolta di aver fatto i propri bisogni in un angolo della cucina e non in giardino, non ci furono botte. Dante venne semplicemente messo fuori, questa volta per tre giorni. A differenza della prima punizione, però, Dante colse la gratuità del gesto. Il suo cervello era aumentato di volume, così come il suo peso. Se a luglio aveva intuito che il dispetto della pipì aveva causato la punizione, per quanto ingiusta, questa volta non si sentiva responsabile di nulla. Aveva fatto i suoi bisogni in cucina perché Ludovico non gli aveva aperto la porta per uscire, intontito e addormentato com’era dopo aver finito da solo una bottiglia di vino a pranzo. Pertanto, forte anche della propria stazza e della risolutezza che sentiva crescere con l’incremento dei chili, non aveva protestato. Si era limitato ad abbaiare, il primo giorno, per un paio di ore. Il secondo giorno vide Ludovico aggirarsi più volte in cucina con lo sguardo rivolto all’esterno in attesa di qualcosa. Dante rimase fermo, accucciato sulle zampe, e osservò il padrone di rimando, in silenzio. I due si guardarono con circospezione. I morsi della fame erano a tratti insopportabili ma un’intuizione nella parte più inconscia di Dante gli suggeriva che, rispetto a un paio di mesi prima, in quell’occasione Ludovico non rideva. E difatti al terzo giorno, quando il padrone gli aprì la porta e lo fece tornare in casa, Dante si avventò sulla consueta ciotola ricolma di crocchette, lanciando sguardi indagatori all’uomo col quale conviveva e, negli occhi di quell’essere che si muoveva sulla sedia a rotelle, non colse soddisfazione. Ludovico se ne andò prima che Dante avesse terminato il cibo.
Passarono cinque giorni di apparente calma prima che Ludovico tornasse a picchiare Dante con una sberla. La reazione del cane fu un guaito seguito da un ringhio rabbioso. Per la prima volta Dante vide nelle gesta del padrone una goffaggine e uno stupore non dissimili da quelli che credeva di aver provato lui, a luglio, quando era stato preso alla sprovvista e messo fuori casa senza cibo la prima volta. Dante, in quella circostanza, aveva avuto paura di non trovare più cibo, paura presto superata dal ritorno in casa. Quel formicolio allo stomaco, figlio non solo della fame, ora era sicuro di averlo visto anche nella reazione del padrone. L’episodio di settembre, unito al ringhio dei giorni seguenti, avevano instillato in Dante una consapevolezza di causa ed effetto che gli piaceva.
Seguirono mesi complessi. Dante non venne più messo fuori casa. Ludovico si limitò a colpirlo col bastone e con altri oggetti. Nella mente di Dante, però, il dolore cominciava ad assumere una forma conosciuta e precisa, e più botte prendeva più ne controllava le conseguenze. L’aspetto più strano del dolore, rifletteva Dante quando si accucciava in qualche angolo ad aspettare che gli effetti delle mazzate passassero, era che, imparando a conoscerlo, riusciva a usarlo. La sua mole cresceva a vista d’occhio. Il mantello, sebbene non curato, era marrone chiaro, con strisce bianche e nere ai lati della testa. La dentizione era forte e vigorosa. Lo aveva esperito la prima volta che aveva azzannato il bastone. I segni lasciati sull’oggetto erano stati profondi e avevano staccato la parte finale dell’arnese. Una vittoria, avrebbe pensato un altro cane. E tale era ma mutilata, poiché la parte apicale di quello che era stato l’oggetto prediletto da Ludovico per torturalo ora si era affilata, dunque le legnate che seguirono spesso escoriavano la cute di Dante. La responsabilità di questo, pensò Dante, era comunque sua. Lui aveva morso il bastone e, a prescindere dalla mole, Ludovico aveva una forza negli avambracci che in cuor suo lo spaventava. Avrebbe potuto saltargli addosso ma aveva comunque timore di quell’uomo, più alto di lui, seppure di poco, e, soprattutto, poi non avrebbe più avuto da mangiare. Perché, a discapito di tutto, la ciotola, escluse le due parentesi dietetiche estive, era sempre stata riempita. Serviva qualcosa di diverso.
Dante aveva notato, per pura casualità, che il padrone perdeva lucidità nel colpirlo dopo che, la notte, non aveva riposato. Fu una seconda associazione di causa ed effetto a farglielo scoprire.
Una notte di ottobre un gatto si era accovacciato sulla finestra del salotto e aveva iniziato a miagolare, forse in cerca di cibo. Dante, che dormiva in cucina, scattò in un istante. Fu preso da una smania irrefrenabile e feroce. Saltò sul balcone della finestra e cominciò ad abbaiare con quanta più forza aveva in corpo, dimenandosi a più non posso. Il gatto evaporò in un istante ma la sete di sangue di Dante non si arrestò fino a quando Ludovico, dopo avergli urlato decine di volte di smetterla, non aveva lanciato lungo la rampa delle scale, a pochi metri dal salotto, un oggetto che era andato in frantumi. Dante ne fu spaventato a tal punto da tornare in cucina con la bava alla bocca, senza fiatare. L’indomani, tuttavia, Dante notò con sorpresa che il padrone, dopo aver raccolto i cocci sparsi sul pavimento, non osò alzare una sola volta il bastone monco, aggeggio che teneva riposto su un ripiano dove lui non arrivava. L’associazione fu presto fatta: mancanza di sonno di notte equivaleva a debolezza d’azione di giorno.
Dante considerò la questione come un asso da calare nei momenti più complicati della convivenza, non certo come una precisa tortura da somministrare notte dopo notte fino a raggiungere le cinque nottate consecutive.
E così avrebbe fatto se Ludovico non gli avesse tagliato la coda.

(…segue dal primo e dal secondo capitolo…)

...segui Gianpietro.

Dove vanno i sigari avana?

Next article
Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

You may also like

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *