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The Beekeeper: la dolcezza delle sberle in faccia

Un film come The Beekeeper può sorprendere? Assolutamente no. Eppure, se contestualizzato al momento in cui stiamo vivendo, risulta un film salvifico.

Motivo: l’arroganza senza misura con cui ogni stereotipo (tossico, direbbe qualcuno oggi) del cinema action anni ’80 viene riproposto a schiena drittissima, con una serietà che solo l’inscalfibile barba di Jason Statham riesce a sostenere.
Avete presente quando frequentate un parrucchiere calvo?
È un ossimoro, una contraddizione in termini. Cosa può saperne di capelli uno che i capelli non li ha? Ovviamente non funziona così e chiunque constata che la bravura del parrucchiere sta in quello che fa, non in quello che è.
Però un pizzico in contropiede The Beekeeper ti prende. E, per ciò che mi riguarda, è un bene.
Apprezzo più le sorprese inattese rispetto alle conferme previste. È una questione di piacere dell’inaspettato.
Parliamo di un film che, scimmiottando John Wick ma con maggiore sprezzo del ridicolo, nei primi cinque minuti inanella Statham, barbuto, sguardo torvo, monosillabico come non mai, cappellino da camionista in testa, mentre si realizza in veste di apicoltore (forse perché l’unico essere vivente nel film capace di procurargli un’escoriazione); un’anziana mentre viene truffata online da dei balordi-nerd-melliflui, vestiti come se fossimo a carnevale, la quale si suicida per la vergogna; la scoperta che dentro alle arnie in realtà c’è in telefono che mette in contatto con una base segreta (che però usa PC degli anni ’80) dalla quale avere qualsiasi informazione su chiunque nel mondo. Il tutto, va precisato, con la polizia che un po’ fa spallucce, un po’ finge di interessarsi alla cosa.

Insomma,The Beekeeper è la sagra di tutto ciò che è e può essere implausibile.

Eppure c’è una sicumera di base talmente esplicita e spudorata che non può non suscitare simpatia. Perché questo film è un film che ha per protagonista un working-class-hero, un “palestrato sui 40 anni” che non usa telefoni, utilizza un PC perché obbligato, guida un vecchio furgone Ford, ha la barba incolta e, dovendo scegliere tra armi e mani, preferisce rifilare sberle a due a due finché non diventano dispari. In un altro mondo si chiamerebbero “schiaffi pedagogici”.
Perché alla base il nostro, che alla fine dovrà addirittura vedersela col figlio della Presidente degli USA (sic!), è un archetipo di una visione del mondo d’altri tempi, una proiezione del famoso detto “si stava meglio quando si stava peggio”, ovvero di un momento formativo, verificatosi poco dopo la fine della guerra e durato fino al 1968, nel quale l’ordine e la tradizione, coi correlati del caso (senso comune del bene e del male, rispetto per gli anziani, lavoro duro alla base della società), erano la norma, non l’eccezione.
Certo, The Beekeeper ci va giù duro, taglia con l’accetta, non prevede tutte le ambiguità di una visione del mondo che non consideri la semplice constatazione che la società è un concetto ben più complesso e mobile rispetto a 60 anni fa.
Ma l’aspetto più interessante è che DAVID AYER se ne sbatte completamente e tira dritto per la sua strada, regalando allo spettatore dallo sguardo sintetico due ore di sano divertimento che poi così ambiguo non lo è mica tanto, in quanto, sebbene per un’ora Statham ripeta che “è una questione personale”, dando adito ai vigilantismi più immediati, in realtà il mondo contro cui si scaglia è nocivo per la società tutta, non solo per la fetta di realtà che comprende lui, l’apicoltore.
E quindi al film gli si perdonano tutte le incongruenze di cui sopra e tutti gli afflati reazionari (trumpiani?) di cui è disseminato.
Di serietà ce n’è poca e di divertimento tanto. La sala era quasi piena e tutti, maschi e femmine, ridevano di gusto alle mazzate inferte da Statham.
E sapete che vi dico? Se devo scegliere tra un film come questo e una realtà nella quale professarsi “tradizionalista” è discriminante per chi non la pensa così, resto in sala tutta la vita.
...segui Gianpietro.

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Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

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