Meglio soli che stipati in un club, poco ma sicuro.
Uno di quei posti dove è impossibile muoversi, un cocktail in una mano e l’altra alle prese con un piatto di plastica e quattro stuzzichini. Coda feroce per entrare nel Club degli Stipati, almeno una mezz’ora ciucciando passivi le sigarette di quello davanti o ascoltando le sue imperdibili telefonate. Nel locale congestionato c’è un casino infernale ed è difficile parlare, complicato sedersi, utopico recuperare cibo e praticamente impossibile trovare da bere qualcosa di sensato. Ormai ho una certa esperienza e quando siamo a rischio sovraffollamento lo capto subito, rimbalzo l’invito e faccio come il rinoceronte nero, uno degli animali più solitari al mondo.
Giro i tacchi verso la landa più disabitata e affronto le grandi savane di Milano per trovare rifugio al bancone del mio locale di fiducia. In splendida solitudine mi affido all’oste che qualche volta, trovandolo particolarmente in buona, sfodera chicche clamorose come Buca delle Canne.
Incredibile vino botritizzato della Val Trebbiola firmato da La Stoppa, storica cantina guidata da Elena Pantaleoni.
“Botritizzato” vuol dire che le speciali condizioni climatiche permettono alla Botrytis Cinerea di attaccare gli acini ed evolverli con un tocco unico, proprio come accade con lo stra-noto Sauternes. Infatti anche qui il vitigno è il semillon, difficile trovarlo in Italia. A La Stoppa, zona Piacenza, lo coltivano in un vigneto di 5.000 metri che ha quasi 100 anni. Per questo è un vino raro, in media 500 bottiglie da mezzo litro, prodotte solo in poche annate benedette. Nel mio caso è la 2005 e sa di canditi e zafferano, il sentore più classico quando si parla di muffa nobile. L’oste è più asociale di me, da lontano mi guarda amoreggiare con questo capolavoro senza intromettersi.
Zero concimazione, nessun diserbo, niente pesticidi, solo lieviti indigeni.
Buca delle Canne passa dieci mesi in barrique e almeno due anni in bottiglia per l’affinamento. La vendemmia dura più di un mese, ogni giorno si passa in vigna raccogliendo gli acini scelti, uno per uno. Al naso esordisce con aromi di miele e pere mature, poi il ventaglio si apre a note più dimesse di tabacco e nocciola. La bocca è la dimostrazione che i grandi vini dolci non sono mai troppo dolci. La loro ritmica riesce sempre a bilanciare il battere delle note zuccherine con il levare di una freschezza fondamentale in termini di equilibrio. Colpisce la nitidezza non comune per la tipologia, i sentori di torrone e spezie sono perfettamente a fuoco, con la cannella che spicca per qualche secondo prima di lasciare spazio a una miriade di altre percezioni.
Agrumi canditi, resine, albicocca, la complessità di Buca delle Canne è materia di studio per il Cern. Strepitosa la chiusura infinita, un lungometraggio da gustare in silenzio.
Nel locale non c’è nessuno, sono qui da due ore e non ho ancora scambiato una parola con l’oste. Lo saluto e mi porto via la bottiglia con due dita di nettare, da conservare per i prossimi spazi vuoti.
Cammino solo verso la fermata del tram, quando arriva è gremito di un’umanità esagitata. Un club stipato, versione on the road. Valuto al volo l’idea di andare a piedi e faccio cenno al tranviere, che nemmeno si ferma e tira dritto, caro amico di misantropia.
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