Delicatessen

Tartufo bianco d’Alba

Ho partecipato a una cena di gala organizzata dai Cavalieri del Tartufo e dei vini d’Alba in occasione dell’investitura del nuovo maestro di Milano. Ho avuto così modo di degustare piatti e vini delle Langhe. La serata procedeva piacevole tra dame e cavalieri. Quando il cameriere servì i plin mi ricordai di un ristorante nei pressi di Barolo dove gli stessi ravioli ci furono versati sul tovagliolo, perché, come disse il cuoco “non hanno bisogno di condimenti”. Ma quando, nella serata milanese, il cameriere fece nevicare nel mio piatto lamelle di tartufo bianco d’Alba, il mio ricordo mi portò al periodo in cui frequentavo le Langhe.

All’epoca raggiungevo con una certa frequenza Giacomo, un mio amico proprietario di una grande cascina sede di un’azienda agricola. A seguire l’attività, produceva anche vino, era un fidato fattore, così che Giacomo era spesso a Milano dove svolgeva le sue mansioni professionali nel campo dell’ingegneria. Un ingresso della cascina conduceva a una grande cucina: i fornelli erano affiancati da una cucina a legna smaltata, con il piano di cottura dotato di apposite sedi chiuse ermeticamente da anelli concentrici che toglievamo in base al diametro della casseruola che mettevamo a cuocere in modo da esporla direttamente al calore del fuoco.

In cascina vi erano animali da corte così che con le uova raccolte in un paniere e la farina del grano acquistato al mulino, spesso mi divertivo a preparare tagliatelle mente il sugo cuoceva per ore sulla stufa crepitante. E in cucina, dove si svolgeva la vita diurna, più volte incontrai Tino, un uomo robusto che poteva avere tra i cinquanta -sessant’anni, in ogni caso almeno il doppio della mia età. Era cercatore di tartufi e aveva due cani ben addestrati allo scopo. Le mani erano callose, il viso evidenziava i segni di chi vive all’aperto, ma qualcosa in lui di indefinibile mi faceva pensare che non fosse propriamente un uomo di campagna. Seppi poi che non era del posto, veniva non si sapeva se dalla Toscana o dal Perigord, con un passato irrequieto e forse a causa del suo stile di vita borderline una notte subì un agguato e nella colluttazione che ne seguì un uomo rimase sul selciato. Ma non vi erano certezze. E se qualcuno parlava di lui, e ciò succedeva raramente, teneva la voce bassa, quasi per timore che orecchie indiscrete potessero ascoltare. Era stimato e quando entrava nel bar trattoria del paese trovava sempre qualcuno con cui condividere un bicchiere di vino. Forse a causa della mia giovane età, subii il suo fascino di uomo vissuto e soprattutto un po’ misterioso. Un giorno in cascina, bevendo insieme un bicchiere di Dolcetto, mi invitò, se avessi voluto, a passare da lui per assaggiare il suo Nebbiolo. In realtà non era “il suo”, ma di un produttore cui aveva dato una botte dove lasciare maturare il vino per qualche mese, prima di imbottigliarlo per ottenerne circa 300 bottiglie. E così andai a trovarlo. Quando arrivavo in Langa se Tino non era in  cascina passavo a trovarlo. Nella sua cucina, davanti ai nostri bicchieri di Nebbiolo, mi parlava delle tecniche e delle accortezze nella ricerca dei tartufi e io lo ascoltavo come se mi parlasse dei massimi sistemi. Poi mi proponeva una passeggiata con i suoi cani e inevitabilmente arrivavamo a una rupe rivolta a sud, in direzione del mare, dove si apriva un panorama movimentato dal succedersi dei monti della Langa. E qui si fermava e guardava l’orizzonte mentre calava il silenzio interrotto solo dal gioioso rincorrersi dei cani. In quel lungo minuto Tino sembrava assentarsi come se con il proprio corpo astrale viaggiasse oltre la linea ondulata dell’orizzonte, lasciando lì, come una statua, il suo corpo in ostaggio. Poi riprendendosi, si voltava verso di me quasi a controllare che non me ne fossi nel frattempo andato. Vedevo il suo sguardo velato di tristezza, tristezza che ricacciava in fondo all’anima per riprendere i suoi racconti o per magari spiegarmi come cambiano le caratteristiche del tartufo in base alla pianta simbionte.

Un giorno lo vidi nervoso. Aveva l’auto in riparazione e Billy non stava bene. Caricai Tino e cane sulla mia Dyane e li portai dal veterinario. Tutto si risolse per il meglio e tornati mi chiese di aspettarlo, per riapparire da  lì a poco con un non proprio piccolo tartufo bianco che mi passò dal finestrino. Mi sembrava inadeguato per un favore che non voleva compensi, ma lui insistette dicendomi che era un cadeau di Billy. E così, rientrato da Giacomo cenammo arricchendo il menu con uova al burro coperte di lamelle di tartufo. Poi nel soggiorno attorno al camino, mentre ascoltavo Giulia cantare alla chitarra Anna di Francia, stemperavo pensieri in lunghi, lenti sorsi di Dolcetto.

Calato l’inverno per un po’ non andai da Giacomo, e solo in primavera tornai in Langa. Quando arrivai in una soleggiata mattina di fine marzo seppi che Tino se ne era andato. Ma dove? Non si sapeva. Forse in Toscana o forse nel Perigord. E io senza motivo salii in auto, arrivai alla sua casa sfitta, l’orto abbandonato, e mi trovai a ripercorrere una delle nostre passeggiate fino ad arrivare alla rupe e lì guardai verso l’Alta Langa. Sino allora non mi ero mai chiesto perché Tino fosse solo. Ossia se fosse single per scelta o perché non avesse trovato la donna con cui vivere. Forse era una donna lontana che cercava guardando verso il mare. E quell’ombra di tristezza che leggevo nel suo sguardo era data dalla sua solitudine. Poi per un attimo volli pensare che lui se ne fosse andato per raggiungere la sua donna, e ora, in quello stesso momento, le stesse carezzando i capelli, coccolandola, avvolto da quel tepore che la solitudine gli aveva negato per anni. Ma fu per un attimo.

A Milano un mio amico gallerista del quartiere Ticinese, mi invitò a una mostra pittorica. Lì incontrai Sandra, longilinea, capelli castani pettinati da una parte, occhi chiari, sopracciglia ad ali di gabbiano, elegante nell’abbigliamento e nell’incedere. La notai per quella probabilmente involontaria, impercettibile espressione di sottile disgusto che il suo viso lasciava trasparire quando qualcuno, quasi certamente estraneo, si rivolgeva a lei. Quell’atteggiamento, ripeto, probabilmente involontario, da puzza sotto il naso, anziché infastidirmi, mi divertiva: nobildonna francese del Settecento, attorniata da sanculotti. Mi capitò ancora di vederla a qualche evento, cominciammo a salutarci, ma era sempre uno sfiorarsi sin quando ci incontrammo a una mostra di Chagall in Foro Buonaparte.

Visitammo per un lungo tratto la mostra insieme poi, come un bambino impaziente di rivelare un segreto, mi confidò che a casa aveva una litografia del maestro stampata a colori. A essere sinceri la notizia non mi emozionò più di tanto e quando mi propose di mostrarmela, accettai soprattutto per cortesia. Mi invitò pertanto a un aperitivo e io, adocchiato un promettente tartufo bianco d’Alba in una vetrinetta di un negozio vicino casa mia, lo acquistai per completare eventuali appetizer. Mi accolse con staccata cortesia, mi diede da stappare un Edi Keber Collio Bianco sorprendendomi molto piacevolmente. A sua volta apprezzò il tartufo e mi prospettò di trasformare l’aperitivo in una cena di un solo piatto: tagliatelle burro e formaggio al tartufo, e vino. L’idea mi piacque, e mentre l’acqua raggiungeva l’ebollizione, mi mostrò il suo Chagall che trovai palpitante. Quindi cenammo e nel corso della serata notai per la prima volta il suo sorriso o meglio, le fossette che si formavano sulle sue guance quando sorrideva. Le trovai deliziose. Erano le nove e pertanto l’aperitivo si era protratto forse troppo per cui valutai che fosse giunta l’ora di togliere il disturbo. Mi alzai da tavola ringraziandola. A sua volta si alzò e mi salutò sorridendo. Quelle fossette… Mi avvicinai a lei e portai la bocca verso le sue labbra, ma lentamente per lasciarle agio di sottrarsi. Quando le incontrai, turgide e vellutate, mi fermai un attimo, le sentii schiudersi e allora la baciai profondamente. Fu un lungo, appassionato bacio e sentii con piacere le sue mani sulla schiena, prima scorrere, quindi aggrapparvisi.

Poi, guardandola negli occhi, pensai che mi ero comportato come il solito maschio che quando si trova solo con una donna ci prova, e pertanto decisi di non indugiare oltre e di congedarmi. Sandra, come se mi avesse letto nel pensiero, afferrandomi un polso mi disse “non essere sciocco. Resta”.

“Ancora?” mi chiese il cameriere munito di tartufo, riportandomi alla serata albese, e in quel momento qualcuno propose di dedicare un brindisi al nuovo Maestro: dame e cavalieri levarono i calici e nell’alzare il mio incrociai il sorriso della signora seduta di fronte a me, e sorridendole brindai.

segui Fabiano.

Il mio saluto a Lino Maga

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Fabiano Guatteri
Di poche parole, scrittore e giornalista, direttore editoriale della testata Good-Mood (www.good-mood.it), collaboro con la Guida I Ristoranti d’Italia de l’Espresso. Ho insegnato Gastronomia Sperimentale presso il Dipartimento di Chimica Farmaceutica dell’Università di Pavia. C’è dell’altro, ma basta così.

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