Una tarda mattina d’estate, mi trovavo in una spiaggia ligure. Seduto vicino alla battigia guardavo il mare e pensavo come fosse appropriato il genere femminile attribuitogli dalla lingua francese. Il mare è materno, è la madre feconda e mi piaceva ricordare che in francese la mer e la mère si pronunciano nello stesso modo. Le onde arrivavano con la loro saggezza infinita, per poi assottigliarsi, esaurirsi nel lambire la ghiaia della battigia e infine ritirarsi con ingenuità bambina. E nel tornare nell’immensità del mare, l’acqua, nella sua trasparenza, riproduceva riflessi di luce che trasformavano i sassolini in sfere di cristallo ruotanti, accompagnati da un pacato, modulato quanto rassicurante sciabordio.
Poi un’altra onda in un ripetersi di moti, di luccichii e di suoni millenari.
Alcuni gabbiani saltellavano a pochi metri di distanza da me, lontani dai cieli di caccia. In mari diversi ho visto volatili cacciare e ho imparato a riconoscerne il volo: i gabbiani scendono in picchiata, sfiorano l’onda e riprendono quota; i pellicani piombano goffamente in acqua, quindi sbattono le ali per poi tornare a volare. Ma il volo che più mi affascina è quello dei cormorani: scendono veloci e come missili si inabissano per poi riemergere lanciati verso il cielo con la preda argentea nel becco. I gabbiani che mi facevano compagnia in quella mattina estiva non sembravano interessati alla pesca, né a voli alla Jonathan Livingston. Più modestamente spigolavano come i corvi di qualche remota spiaggia indiana. Così mi alzai, anche perché nel frattempo mi si era risvegliato un certo appetito, e mi infilai nei vicoli del borgo.
Molti ristorantini si affacciavano sui carrugi. Uno di questi, in una lavagnetta esposta, elencava tra i piatti del giorno il baccalà. Per un attimo mi ricordai di una piccola trattoria del Barrio Gotico di Barcellona che pubblicizzava nello stesso modo un bacalao pil pil. E così, come allora, mi trovai nel locale quasi che una sorta di forza karmica mi ci avesse spinto. E ordinai il baccalà con le olive taggiasche reclamizzato sulla lavagnetta, nonostante l’allettante profumo di fritto di paranza. Mentre aspettavo sorseggiando un fresco Rossese della Riviera Ligure di Ponente, mi ricordai del pil pil. All’epoca, in verità, non sapevo cosa fosse: ero incuriosito unicamente dalla musicalità del nome.
Qualsiasi persona sensata si sarebbe informata circa la natura del piatto prima di ordinarlo. Ma per me non fu così.
Inconsciamente, o consciamente, mi comportai come l’eroe intergalattico Flash Gordon che arrivato su un pianeta alieno, in un ristorante locale, anziché farsi consigliare dal cameriere, ordinò un brodo dal nome impronunciabile senza sapere cosa fosse perché non voleva passare, per dirla come lui, al pari di “un turista minchione”. Allo stesso modo ordinai il mio pil pil, e fui decisamente fortunato. Mi piacque la ricchezza del cremoso fondo di cottura, il sapore e la consistenza del baccalà, le note agliacee e piccanti.
Ma ciò non bastò perché io lo ricordassi.
Ibiza mi aspettava e lì avrei vissuto altri film che mi avrebbero fatto dimenticare Barcellona e le sue ramblas. Fu solo nella vita attuale che ritrovai, inaspettata, quella preparazione. Con alcuni amici partecipai alla fondazione a Milano di club di gourmet, o forse di gourmand, e insieme organizzammo eventi gastronomici in ristoranti o in altre location invitando cuochi reputati. Mi ricordo la serata del cappon magro, quella del bollito misto con le carni di Ercole Villa presenziata dal mitico macellaio, quella dell’oca e via elencando. E tra un evento e l’altro ci frequentavamo. Uno dei miei amici, Giorgio Mignani, era pubblicitario, noto per suoi slogan diventati famosi come “Milano da Bere” o, per Scottex, “Dieci piani di morbidezza”. Una sera, arrivato nella sua bella casa dall’ampia cucina, lo trovai mentre stava cimentandosi ai fornelli muovendo su e giù un tegame. Stava preparando il baccalà pil pil. Osservandolo con ammirazione mi trovai a rievocare la piccola trattoria barcellonese. Giorgio mi raccontò non solo che il è pil pil è un piatto basco, ma mi svelò alcuni accorgimenti per cucinarlo a regola d’arte. Il baccalà va cotto su una base di olio aromatizzato all’aglio e peperoncino, a fiamma bassa per favorire la produzione del liquido gelatinoso secreto dal baccalà, e per evitare al tempo stesso l’evaporazione del fondo che dopo pochi minuti di cottura comincia a formarsi. Inoltre occorre muovere il recipiente costantemente in modo che gelatina e liquido del baccalà comincino a emulsionarsi con l’olio.
Da quella sera mi appassionai al pil pil scoprendo che esistono più interpretazioni, e tutte richiedono una notevole quantità di olio extra vergine d’oliva.
Io ne utilizzo in quantità sufficiente per riempire di almeno due dita il tegame. Sbuccio e affetto a lamelle 4-5 spicchi di aglio e spezzetto un peperoncino. Scaldo l’olio e vi lascio soffriggere aglio e peperoncino sino a quando l’aglio comincia a imbiondire dopodiché li sgocciolo con una paletta e dispongo nel recipiente di cottura il baccalà ammollato e asciugato accuratamente. Porto a cottura sempre a fiamma molto bassa muovendo costantemente il recipiente, quindi dopo circa 10-15 minuti volto i pezzi e ne concludo la cottura; c’è chi copre a filo il pesce con l’olio e in questo caso non serve voltarlo. Sgocciolato il baccalà, mescolo il fondo di cottura in senso orario con un colino per emulsionarlo così da ottenere una salsa cremosa. Con un cucchiaio distribuisco allora la salsa sui pezzi di pesce impiattati che guarnisco con le lamelle d’aglio e il peperoncino.
Mi ero perso in questi ricordi quando il cameriere del ristorantino ligure portò il mio piatto. Mi ripresi con un sorso di Rossese fresco più che mai, e ritornai nel presente.
...segui Fabiano.
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