Sorsi a Mezzogiorno

Undici metri di solitudine

Accadde circa quattro lustri addietro, mentre attendevo la consegna dell’auto, presa a noleggio, che da Dublino mi avrebbe portato a Belfast.

Complice la mia tradizione di acquistare il quotidiano locale del luogo dove approdo, accadde che lessi un articolo troppo accattivante per chi nutre passioni legate al calcio d’epoca, all’antropologia e a personaggi tanto intriganti quanto poco conosciuti.

In un piccolo paesino al confine tra le due capitali dell’Isola di Smeraldo stava avvenendo una di quelle piccole battaglie per cui vale la pena di perseguire, all’insegna dell’orgoglio, il significato più ontologico del perché si decida di vivere una vita in un posto piccolo e forse dimenticato, per dare un senso a qualcosa accaduto in passato e che nel rinverdirla continua a dare cera a chi quotidianamente è offeso da una vita troppo frenetica e incurante di quel romanticismo.

Quel paesino prende il nome di Milford, ormai un sobborgo della città di Armagh, capitale dell’omonima contea, che potrebbe essere considerata quasi la Gerusalemme dell’Isola Verde, visto che  da queste parti pare vivesse San Patrizio, caro alle due fedi religiose più importanti di questi luoghi: proprio qui infatti hanno ubicazione le due cattedrali più importanti sia per i cattolici che per i presbiteriani.
Giunto a Milford rimasi immediatamente impressionato da una bellissima casa di epoca vittoriana, lasciata al suo destino e subito mi fermai ad ammirarla: era imponente, maestosa quasi desiderosa di raccontarmi di un suo passato che di certo fu glorioso e radioso. Come sempre mi accade quando vedo queste strutture che raccontano di un tempo che fu, siano essi fienili, case di campagna o case nobiliari abbandonate, cerco di prefigurare la vita che accolsero e quanto di quella vita ancora potrebbero raccontare: uomini, donne, famiglie intere che potrebbero narrare del loro vissuto quotidiano sicuramente fatto di fatica, gioia, cadute e risalite, con un unico fil rouge tessuto dal nobile sentimento dell’amore.
The Milford’s House
Cercai d’interpretarne i fasti del passato; l’erba del giardino circostante selvaggia e radiosa faceva da contrasto a quelle mura ormai decrepite ma austere, quasi a voler significare che, benché usurpata del pezzo di terreno dove fu eretta la casa, lei cresce sempre fulgida e serena. Pensavo tra me e me che quelle mura erano contente di vedere quella vita vegetale intorno a loro crescere, avere una compagnia a cui riversare la loro malinconia, la loro voglia di condividere segreti o storie di un passato lontano: un po’ come quell’anziano ad una panchina che condivide i suoi momenti con un volatile contento di mangiare il cibo che gli sgretola, pian pianino.
Mi catapultai verso l’unico pub aperto e fui accolto dal titolare, il quale mi mise subito in contatto con il giornalista che curò quell’articoletto.

Bisognava firmare una petizione! M’indicò un pezzo di terra, ed esclamò: “lì nacque il calcio di rigore ed ora ci vogliono costruire case! Non lo permetteremo, per la gloria del nostro luogo, William non sarà seppellito dal cemento!”.

Una commozione mista a felicità, un’emozione mista a sorpresa mi colse: era tutto così sorprendente!

Allora, pensai, non è vero che il millennium bug (era quel periodo lì, più o meno) distruggerà il romanticismo! Non è vero che il nuovo che avanza cancellerà ogni forma di sentimentalismo. Bramavo dalla voglia matta di conoscere la storia di William, che di cognome faceva Mccrum.

William Mccrum
Egli era figlio di (rectius del) un magnate di Milford, e guarda caso viveva in quella casa vittoriana di cui sopra. Suo padre Robert era un industriale del lino – industria fiorentissima all’epoca e soprattutto in questa area del Paese, quella appollaiata sulle sponde del fiume Bann ha regalato (oggi purtroppo ne è rimasto un piccolissimo ma sempre fulgidissimo retaggio) il più bel lino del mondo – e un milionario, per l’epoca: era una persona facoltosa, diede lavoro a tante famiglie della zona, per le quali aveva creato un villaggio dove si vivesse in armonia attorno al linificio, lungimirante visione d’integrazione sostenibile tra l’operaio, la sua famiglia e la crescita sana dei propri figli tra scuola e attività ludiche. Pare, tra le altre cose, che avesse inventato anche il bollitore e la lavastoviglie, ma che mai depositò i brevetti. Di sicuro la sua casa (quella casa!) fu la prima ad avere l’elettricità, per come oggi la intendiamo noi, in Irlanda!

William era un ragazzo che, però, aveva due grandi passioni: il teatro e il calcio; era una persona molto generosa, amante del bello e della compagnia, amava leggere e fantasticare su mondi lontani. La sua passione sportiva lo portò ad essere il portiere della locale squadra, il Milford Everton F.C.

La squadra non navigava in zona altolocate della classifica, anzi tutt’altro: nel 1890 il Milford chiuse il campionato ultimo e William raggiunse il record negativo di subire 60 goal in 10 partite… ma non è che i suoi attaccanti fossero proprio prolifici, avendo segnato solo 10 goal in altrettante partite.
Ma William era un gentiluomo, nonché un devoto di De Coubertin, e aveva in mente una cosa che proprio non gli andava giù. Non ammetteva il fatto che nell’aerea di rigore i calciatori avversari potessero subire falli, si direbbe oggi “in chiara occasione da rete “, senza che la squadra che avesse commesso il fallo non subisse una punizione severa; tale accortezza avrebbe permesso anche ai difensori di far sentire meno solo il portiere, limitando così le occasioni da goal e cercando anche di proteggere, correttamente, chi come lui aveva il compito di difendere la propria porta.

Partì così nel 1891 la sua mozione alla Federazione irlandese, la quale dopo un primo scetticismo accolse e perorò quella causa alla Federazione internazionale. Il resto è storia: James Mcluggage, giocatore scozzese del Royal Albert, calciò il primo rigore della storia, distante 11 metri dalla porta: infatti, questi metri, rappresentavano la media tra le linea dell’area di rigore e l’area piccola.

E  William? Purtroppo, dopo la morte del padre non seppe gestire la sua fortuna. Si sposò, divorziò e morì, nel ’32, solo e povero – causa anche la crisi del ’29 – nel suo paese dopo aver comunque avuto una vita ricca di cavalleresca ricerca e avventura e non prima di aver aiutato, quando era ancora nel pieno delle sue facoltà economiche, il suo miglior amico d’infanzia, tale Robert Gwynne, a diventare a Londra cantante d’opera. Questi, tornato al paese, vestito come un nobile, pare degnò solo di un saluto il povero William che intanto cominciava la sua caduta verso il basso; egli, forte della sua personalità e della solitudine che la vita e l’essere portiere gli avevano regalato, reagì con una sardonica risata, frutto di un vorticoso pensiero che riecheggiava il lino e il valore degli abiti e di chi e come l’indossa, memore delle sue letture di Balzac e Stendhal nonché dell’insegnamento e dei valori che la solitudine del portiere insegnano.

La petizione del comitato pro Milford, che intanto ha anche costituito un museo con i cimeli per lo più ritirati dalla bella casa in cima alla collina, come per la mozione di William, ha vinto: quel terreno raccoglie una statua di William e una lapide con un pallone.

La statua di William Mccrum
Anche i costruttori hanno vinto ma hanno lasciato lo spazio per quella piccola grande gloria, costruendo le abitazioni a 8 metri di distanza l’uno dall’altra: in pratica, quanto distano tra loro i pali di una porta di calcio, ironia della sorte.

Il teatro e una partita di calcio sono, in fondo, la metafora della vita perché riescono a condensare in un arco temporale ristretto i drammi e i piaceri che essa può regalare.

Inconsapevolmente, forse, grazie alle sue passioni e alle sue esperienze il buon William seppe, attraverso il calcio di rigore, condensare l’atavica solitudine del portiere, che affronta la forza balistica dell’attaccante e questi, terminale per eccellenza del gioco di squadra, la forza della solitudine del numero uno: insieme e da soli, come un caos apparentemente calmo, a condensare la forza degli opposti che generano, come nei duellanti di Conrad, l’irragionevole ragione dominante.

È vero: non si deve aver paura di tirare un calcio di rigore perché non è da questo particolare che si giudica un calciatore, cantava De Gregori; ma quante gioie, aspirazioni, tensioni, dolori e piaceri quella piccola ma maestosa invenzione ha regalato al mondo in più di un secolo di vita; William, da lassù, scruta guarda e in caso di errore dirà: “non ti preoccupare, facciamoci un goccetto di whiskey e vedrai che torna il sereno”, in fondo come diceva Synge, suo coetaneo e connazionale, “in una buona opera teatrale ogni discorso dovrebbe essere ben aromatizzato come una noce o una mela”. 

Maradona, dagli archivi di Francesco Apreda

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Roberto Viscomi
Nasce laddove fu coniato il nome Italia; da quando lesse ciò  che proferì un suo corregionale a proposito della gente di quei luoghi e cioè  che “nel loro destino c’è sempre un treno che parte con un vasetto di melanzane a corredo” non ha mai smesso di prendere treni, anche con le ali, mentre metaforicamente qualcuno l’ha perduto; di contra ha sempre seco il vasetto di melanzane e qualche distillato o fermentato come eterno sponsale. Ama leggere e scrivere il lato filosofico del viaggio, del cucinato, del cucito, della vite e delle vite degli sportivi che indossavano le casacche di lana.

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