Delicatessen

Percebes…

…e ricetta

Stavo percorrendo la Riviera dei Fiori, diretto ad Avignone. Mi sarei fermato in Costa Azzurra per incontrare Florence. Avvocata civilista, la conobbi quando studiava ad Aix-en-Provence. In realtà il suo interesse era il diritto penale: difendere e fare assolvere un innocente emoziona molto di più che occuparsi di una fredda pratica civile. Ma una serie di pressioni, compresa quella del padre titolare dello studio in cui esercitava, la “convinse” a diventare ciò che divenne. Non che le dispiacesse, ma era un’altra cosa.
Florence era una donna agile e snella, i suoi lunghi, lisci, capelli, castani come gli occhi, erano sempre perfettamente pettinati; le labbra sottili, non conoscevano rossetto. Le mani dalle dita affusolate, percorrevano movimenti controllati, e sfioravano più che toccare, con gestualità che potevano suggerire pudicizia. L’esile corporatura celava però un’agguerrita gourmande. Una sera la vidi demolire un piatto di cassoulet con la nonchalance con cui Carnilla Sagastume, l’insaziabile Elefantessa di “CENT’ANNI DI SOLITUDINE“, liquidò un intero vitello con tanto di tuberi e banane cotte per contorno. Conoscendo i miei gusti, Florence mi portò in un piccolo ristorante a Cannes specializzato in coquillage. Quando ci servirono un formidabile Plateau Royal, degnissimo di tale nome, contenta che fossi soddisfatto dell’ampia selezione di frutti di mare e di crostacei, indicandomi il “bouquet”, così lo chiamò, di percebes mi chiese se li conoscessi.
La domanda era legittima perché all’epoca non avevano la diffusione attuale e raramente uscivano dalla Spagna. E io che adoravo quando Florence assumeva il ruolo di maestrina le chiesi di raccontarmeli. Mentre l’ascoltavo mi tornò in mente il primo incontro che ebbi con questi crostacei quando ancora ne ignoravo l’esistenza.
Devo però prima introdurre il fatto. Mi trovavo a Lisbona.
In una soleggiata mattina di ottobre, seduto al tavolino di un caffè su uno stretto marciapiede, ero in attesa del cameriere. Ma prima di lui arrivò un corteo che anziché percorrere l’ampia Avenida che costeggia in parte il mare, imboccò la più stretta strada in cui mi trovavo. Il marciapiede presto si riempì di gente che fiancheggiava la manifestazione, e mi trovai in pratica bloccato. Al mio fianco una signora giovane mi chiese qualcosa e io le risposi in italiano che non capivo. Al che sorridente mi disse, in italiano, che conosceva il mio paese. Poi mi avvertì che se avessi voluto bere qualcosa, avrei dovuto aspettare chissà quanto, e mi propose pertanto di raggiungere un caffè decisamente più ospitale.
E io la seguii. Giacché il marciapiede era troppo affollato per essere percorribile, entrammo nel corteo, percorremmo tra due file di manifestanti una trentina di metri, quindi uscimmo per svoltare in una vietta e dopo una sostanziosa camminata entrammo in Praça da Figueira, nel centro cittadino, in una pasticceria storica, lussuosa, dove comodamente seduti ordinammo i nostri caffè, forse con panna. Maria, così si chiamava, conosceva l’Italia, e oltre ad amare le città d’arte era innamorata dei vicoli di Caricamento a Genova e l’appassionavano i tram storici di Milano.
Laureata in Belle Arti, era affascinata dal Rinascimento, dal nostro stile di vita e anche dalla musicalità della lingua italiana. Aveva occhi castani e capelli scuri ondulati, la mandibola larga suggeriva schiettezza e le labbra carnose sensualità. Mi chiese quanto conoscessi Lisbona, e alla mia risposta mi confidò che non avevo ancora visto il meglio. Io sarei partito da lì a tre giorni. Maria mi propose di portarmi al Bairro Alto, posto su un colle, famoso per la vita dopo il calare del sole, ma che meritava sicuramente una visita diurna. In quei pochi giorni ci affiatammo. Sarei dovuto tornare a Lisbona in febbraio e lei mi chiese di avvisarla anche perché mi avrebbe trovato un hotel più confortevole e meno costoso di quello in cui alloggiavo. E così a febbraio ci rincontrammo.
Una sera percorrevamo insieme Praça do Comércio, il vento sferzante ci spruzzava l’acqua gelida dell’Oceano che ruggiva a poche decine di metri da noi. Bavero alzato, tenendoci stretti a braccetto ci inoltrammo nelle stradine verso il Rossio, il cuore della città, a due passi da Praça da Figueira. Lì ci infilammo in una marisqueria che aveva l’aspetto e il servizio di una trattoria con tanto di tavoli piccoli e ravvicinati, ma con una cucina da gran ristorante. Mi ricordo il granciporro servito nel carapace condito con una salsa emulsionata più garbata dell’aïoli e con qualche nota di remolata. Avevamo appena ordinato la seconda bottiglia di vino, e stavo veramente bene, quando ci portarono i percebes.
Mi incuriosirono non poco quei rametti tozzi, lunghi circa 4-5 centimetri con all’apice una sorta di unghie che mi ricordavano un artiglio. Maria mi mostrò come si mangiano, spezzandone uno con le dita e portandoselo alla bocca, poi guardandomi intensamente negli occhi ne spezzò un altro, questa volta incidendolo prima con i denti con un morso da pantera, e mi si avvicinò per portarmelo alla bocca così che un mio ginocchio si trovò tra le sue gambe. Mentre lei si sporgeva verso di me per imboccarmi con il mio primo percebe, mi strinse la gamba tra le sue cosce e, perfida, mi sussurrò “ti piace”? Era una domanda ambigua che legittimava mille interpretazioni: mi piace che cosa? Il percebe che mi hai appena imboccato? Le tue gambe che mi stringono? La serata con te? Questo ristorante? Lisbona?
…e io risposi a tutte queste con un univoco sì.
In un’altra occasione Maria mi raccontò che i percebes sono galiziani e la storia la conosciamo tutti per cui mi limiterò a riportare che vi sono sostanzialmente due varietà, una tozza, come quella che trovai a Lisbona, concentrato di iodio, di dolcezza, di sapidità e altri più lunghi ed esili, che hanno sapore un po’ slavato. I primi sono raccolti sugli scogli che affiorano con la bassa marea, gli altri, sono sempre sommersi nell’acqua; vengono localmente chiamati rispettivamente de sol e de sombra. Si possono consumare crudi, oppure cotti.
In questo caso volendo procedere come nei luoghi di raccolta, in una casseruola portate l’acqua in ebollizione calcolando approssimativamente un litro abbondante per chilogrammo di percebes e unite 50 grammi di sale grosso per litro.
Versate i percebes: l’acqua produrrà la tipica schiuma bianca e se diventerà leggermente verde non c’è da preoccuparsi perché è a causa delle eventuali alghe che sono incrostate nei crostacei. Quando il bollore riprende, dopo un minuto scolate i percebes, copriteli con un panno e serviteli. Si mangiano con le mani tenendo l’apice, ossia la parte con le placche calcaree che formano una sorta di artiglio, tra il pollice e l’indice, afferrando con l’altra mano tra il pollice e l’indice il piede, subito appena sotto la chela. Si piega allora il piede ruotandolo leggermente come si farebbe per togliere la testa di gambero dalla coda, quindi si sfila la polpa dalla pelle spessa che la ricopre in modo che rimanga attaccata all’apice e si porta alla bocca oppure si stacca e si serve a parte. Va ancora detto che una volta che la polpa è rimasta attaccata all’apice alcuni aprono quest’ultimo così che anche la sua polpa si sfili rimanendo attaccata al resto, ma non a tutti piace perché ha sapore molto intenso, così come non a tutti piace la testa del gambero, appunto.
A Cannes osservando Florence mentre concludeva la sua dotta, piccola lezione, notavo come fosse diversa da Maria, i movimenti frenati, la misurata gestualità. E così, quasi senza pensarci, mentre verificava se avessi appreso quanto mi aveva appena impartito, guardandola negli occhi portai un percebe alla bocca, lo addentai con un morso da lupo e lo pulii. Poi mi protrassi verso di lei incontrando un suo ginocchio che accolsi tra le mie gambe; non avvertendo cenni di fuga, lo catturai stringendolo tra le mie cosce e la imboccai.
E lei, poco dopo, senza sfuggire alla mia presa, sorridendo prese un percebe, a sua volta lo morse, e mi sussurrò: “mi piace”.
...segui Fabiano.

Gabriele Gorelli

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Fabiano Guatteri
Di poche parole, scrittore e giornalista, direttore editoriale della testata Good-Mood (www.good-mood.it), collaboro con la Guida I Ristoranti d’Italia de l’Espresso. Ho insegnato Gastronomia Sperimentale presso il Dipartimento di Chimica Farmaceutica dell’Università di Pavia. C’è dell’altro, ma basta così.

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