Oggi a Montalcino non si limita a piovere ma diluvia. L’estate, l’afosa estate, se ne è fuggita, via da queste colline morbide, è sparita dietro all’orizzonte in una scia di promesse ed ambizioni spesso effimere, realizzate solo in minima parte. Tant pis. In paese si respira già odore di legno bruciato, qualcuno, poco lontano, abbrustolisce castagne, i corrieri, indaffarati, scaricano merci sotto i ristoranti e gli hotel, traboccanti di turisti. Uno spettacolo non nuovo a queste latitudini, confortante visto il periodo. Sono i primi giorni di ottobre 2021. La vendemmia, la travagliata vendemmia, è appena finita. Tutta quella frenesia, quelle quattordici ore sudate trascorse con il naso basso, fagocitati dalle vigne, quegli ultimi soli che scaldano, ancora, soltanto nelle ore meridiane, è stata sostituita da una serie di pratiche abituali, altrettanto indaffarate, fatte soprattutto di controllo delle temperature di fermentazione per alcuni e, per altri, di rimontaggi.

Arrivo a Le Potazzine, davanti alla bellissima casa padronale del 1800 che ospita l’azienda, quando l’acquazzone sta dando il meglio di sé; per bisogno di non inzupparmi o per forza me ne devo restare al coperto e aspettare che passi. Lo so che il segreto di questa visita è tutto nel tempo che intercorre tra quando spengo la macchina a quando entrerò in cantina. Permette alla mente, che scorre sempre veloce, di raggiungere il corpo ed entrare in sintonia. Tutte le operazioni perfettamente riuscite, se ci pensate bene, hanno questo comune denominatore. Corpo e mente allineati, aspettare il tempo giusto.
Aspettare.
È proprio quello il segreto del vino, se ci pensate bene. Anacronistico finché volete, oggi, nel 2021, con tutto quello che di buono avremmo potuto imparare ma non abbiamo imparato dalla pandemia. Per tanti, un’occasione persa.
Aspettare.
Il vino esige, il vino è come rileggere un buon romanzo infinite volte, fino a scoprire quel piccolo dettaglio, quel particolare azzeccato che era scappato non solo una prima e una seconda volta, ma anche una terza. È un’attività costante ed impegnativa, una gara tra pazienza ed irruenza, con un dio superiore ed antidemocratico a guidarlo, il Tempo.

Proprio così, il Tempo.
Le Potazzine (e il suo vigneto principale, Le Prata), nome che deriva dal localismo per chiamare le cinciallegre, è locato appena a sud di Montalcino, anche se per quanto riguarda la denominazione del Brunello siamo nel quadrante Nord-Ovest. Una collocazione in compenso molto alta, circa 510 metri sul livello del mare, un tempo considerata sconsigliabile per il Sangiovese. L’altro ettaro sorge vicino a Sant’Angelo in Colle, questa volta quadrante Sud-Ovest, circa 420 metri slm. Quando Gigliola mi accoglie, con la squisita cortesia di sempre, è la prima cosa che mi confessa, dopo che abbiamo commentato questa travagliata vendemmia 2021. Fortuna nostra, mi dice, che abbiamo questa escursione termica, è questo che fa bene alle vigne. Lieve stress idrico, ma piante sanissime, ancora con tutte le foglie verdi, fatto che verifico con i miei occhi appena il diluvio ci permette di uscire. Gigliola gestisce l’azienda con le figlia Viola (che si occupa della cantina) e Sofia (che si occupa dell’accoglienza e del marketing) e una serie di fidati collaboratori e collaboratrici, su tutti lo storico Giulio Gambelli.

Si respira, sia in vigna, dove vigono principi antinterventisti (compresi gli anni difficili, come questo), che in cantina, un clima molto accogliente, a completare il quale ci pensa, nel 6,5 ettari circa di proprietà, ma con qualche ambizione di sviluppo futura, una religione monoteistica chiamata Sangiovese.

Una bestiaccia strana, il Sangio. Un’uva che non disdegna un morigerato stress, climatico e idrico, un’uva che rende meglio quando è lasciata, come mi piace dire, ‘libera di cavalcare’, perché un’uva selvaggia non va addomesticata, per nessuna ragione al mondo. Un’uva che somiglia maledettamente a questa terra, insieme fine, delicata, bellissima ed aspra, brusca, a tratti intrattabile. Quando passiamo alla cantina capisco le condizioni, anch’esse antidemocratiche, di una religione così rigorosa, arrivo nel momento giusto per rendermi conto di cosa significa fermentare spontaneamente il Sangiovese, si tratta di attenzione costante, perché senza l’iniezione ‘sprint’ dei lieviti selezionati la fermentazione è lenta, lentissima, e con il cappello galleggiante, quindi senza follature, i rimontaggi vanno fatti anche 3 volte al giorno. Per quanto tempo? Gigliola mi rivela che nei 28 anni di vita de Le Potazzine hanno sempre proceduto con la fermentazione spontanea, mai per meno di un mese. Una delle tante affascinanti magie del mondo del vino, una tecnica vecchia come l’uomo ma che non si trova nei libri di scuola. Soprattutto per l’impossibilità di essere schematizzata: temperature nei tini di acciaio (alcuni, i più nuovi, tronco-conici) che si innalzano anche fino ai 39 gradi (ovviamente non inducendo nessun tipo di controllo della temperatura), prontuari e manuali dell’enologia che saltano in aria compresi. Eppure, appena dopo, già all’inizio della sosta (lunghissima) in botte grande – normalmente con malolattica svolta nell’anno della vendemmia – che per Le Potazzine significa anche 42 mesi per il Brunello, quello che succede è che il vino (che non subisce filtrazioni) possiede vibrazioni (incr)edibili, frequenze composite e complesse, naso di piccoli frutti di sottobosco, tocchi di chinotto o bergamotto o buccia di arancia, freschezza e complessità e polposità alla bocca, con tannini che sono più lana grezza e tweed che non velluto, in bottiglie sempre pulite, mai scomposte, molto eleganti. Gli assaggi di botte (tutti roveri di Slavonia di Garbellotto) che ho il privilegio di fare indicano quanto il lavoro sia in fase di crescita qualitativa, con una conferma su di un picco: l’annata 2019 ma soprattutto la 2020, con tutti i disagi che ci ha procurato, ci riserverà invece, in bottiglia, enormi, enormi soddisfazioni.









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