Santo bevitore

Fuligni

Fuligni e il Brunello di Montalcino dal Sangue Blu

Nel vino, io credo, talvolta si attiva una sorta di riconoscimento, un’istantanea ‘corrispondenza di amorosi sensi’ che collega chi il vino lo produce a chi lo beve, posizionandoli sulla stessa lunghezza d’onda. Il mezzo, nemmeno a dirlo, la miracolosa bevanda dionisiaca cui senza esitare abbiamo dedicato le nostre migliori energie e che non ringrazieremo mai abbastanza per tutto quello che ci ha dato in cambio. Considerandolo, come ho sempre fatto, un organismo vivo, penso che nei casi migliori si tratti di un vero e proprio colpo di fulmine, irrazionale e imprevedibile come solo i colpi di fulmine sanno essere, che travolge sensi e riscrive destini, nella maniera più fruttuosa che si possa immaginare.
È tutto quello che mi è successo la prima volta che ho bevuto una bottiglia di Brunello di Fuligni, trovando magicamente allineate tutte le componenti del gusto personale – elemento da cui non si dovrebbe mai prescindere, in materia enoica – amplificate all’ennesima potenza, tese come corde di violino, con in più una chiara volontà di abbinare alla raffinatezza tecnica uno zero-compromise che dovrebbe sempre animare le ambizioni più elevate di ogni produttore.
Deciso quindi di ‘dovere’ conoscere i miei benefattori, arrivo in cantina in una fredda giornata pre-invernale di novembre, appena qualche settimana dopo avere assaggiato (con favorevole piacere) le anteprime del Brunello 2017. Un momento perfetto. A Montalcino, dove ho dormito stanotte, fa quel freddo che è impossibile spiegare a chi abita le pianure. Ogni raffica di vento è una coltellata raffinata, che penetra cappotto e vestiti implacabilmente, ma è anche una clamorosa iniezione di endorfine, che porta a muoversi in maniera rapida, economizzando al massimo le esposizioni; gente come me, poi, che per deformazione professionale pensa sempre al clima come una funzione di un equilibrio destinato innanzitutto a salvaguardare le vigne, vista l’aria intirizzente della mattina, associata alla relativa temperanza della serate, soffre volentieri in silenzio perché nel frattempo si compia indisturbato il Miracolo della Creazione.
Scendo dal paese nel primissimo pomeriggio, perfettamente in orario per l’appuntamento, ma il Destino vuole che nel frattempo i maledetti malanni di stagione abbiano decimato lo staff, compresa la signora Maria Flora, con cui mi dovevo incontrare, tanto che se non fosse perché entrando incrocio il buon Daniele Zeffirini, cellar master di casa ma non solo, magari dovrei rimandare la visita, ma niente, carinamente sposta un paio di appuntamenti (il mondo del vino è anche questo, umanità, gentilezza e…costante riprogrammazione) per permettermi di visitare l’azienda e fare due chiacchiere.
Parlare di questa cantina è uno di quei rari casi che mette il cronista in imbarazzo a causa della sovrabbondanza di materiale. È che la storia parte dal lontano, dato che i visconti Fuligni, famiglia nobile originaria di Venezia, si trasferirono in Inghilterra nel XIV secolo, parte di un contingente di condottieri al servizio di Edoardo III.
Solo più tardi, nel 1770, quando gli Asburgo-Lorena ascesero alla guida del Granducato, l’avo Luigi Fuligni, generale, fu rispedito in Toscana, incaricato della bonifica dei terreni della Maremma, dove il Granduca Pietro Leopoldo gli concesse una proprietà. Di conseguenza i Fuligni impiantarono vigneti intorno a Scansano, producendovi vino fino all’inizio del XX secolo, quando l’avo Giovanni Maria Fuligni si stabilì nella vicina Montalcino.
L’azienda viene fondata nel 1923, producendo fin da subito sia vino che olio, nella stessa collocazione di ora, a due curvoni dall’abitato di Montalcino. Quando nel 1971 l’azienda passa a Maria Flora Fuligni, una delle ‘donne del vino’ più importanti nella storia del Brunello, inizia la vicenda moderna della cantina, quella della rinomanza internazionale.
È il periodo in cui il Brunello esce dalla nicchia di un piccolo paesino arroccato sulle colline per affacciarsi, spavaldamente, alla ribalta internazionale, ma sono anche gli anni in cui il pubblico mondiale scopre l’incredibile qualità dei vini prodotti in Toscana. In pochi anni cambia tutto. È l’inizio dell’era moderna della viticoltura italica.
‘Donna’ Maria Flora è tuttora alla guida insieme al nipote, Roberto Guerrini Fuligni, docente alla facoltà di Giurisprudenza e figura di intellettuale eclettico, da anni coadiuvati dalla preziosa Daniela Perino. Fuligni si porta dietro la fama di grande depositaria della tradizione storica del Brunello. C’è chi racconta che, in un fenomeno tutto sommato di recente codificazione come quello di Montalcino, i prodotti di Fuligni hanno descrittori costanti fin dai primi anni, lieve austerità, raffinatezza, concentrazione di frutto sì ma nessun eccesso, estratto imponente. È l’ennesima conferma che il vino fatto bene, con onestà e accuratezza, alla fine paga sempre, al di là delle volubili incostanze delle mode.
Oltre a questo, ed è evidente nella qualità della materia prima, qui c’è la radice di una vocazione conclamata. Mi guardo intorno per cercare di comprendere da dove provenga. Il corpo centrale dell’azienda, con il palazzo storico di origine medicea, è a Cottimelli, nel vigneto omonimo, diviso in Cottimelli Di Sopra e Cottimelli Di Sotto (a completare le parcelle aziendali ci sono poi Vigna San Giovanni, Vigna del Piano e Vignaccia), per un totale di circa 15 ettari vitati su una superficie di 100 complessivi. Appena 3 km dall’abitato di Montalcino, sulla strada che scende verso Siena.
Altitudine variabile tra i 380 e i 480 metri, viti giovani, che raramente superano i 30 anni di età; siamo nel quadrante nord-est della denominazione, fattore che a mio avviso sta diventando sempre più decisivo per la caratterizzazione della DOCG Brunello ma anche, forse più marcatamente, della DOC Rosso di Montalcino.
Terreni poveri, sassosi, marne eoceniche e tufo, poco galestro, soprattutto argilla, mi aggiorna Daniele. Che sia proprio l’argilla a fornire le ‘spalle’ al Sangiovese ormai è risaputo. Il resto lo fanno idee limpide, i vini vengono messi in commercio come etichette a sé stanti (è il caso, in particolare, della Riserva, realizzata esclusivamente con le viti più vecchie) solo se raggiungono numeri sufficienti, diversamente contribuiscono ad arricchire le altre tipologie. Soprattutto vini diversi, con affinamenti ed intenti differenti, accomunati da una stessa cifra stilistica, costante nel tempo. Ma qui c’è di più, una sorta di lignaggio, quell’eleganza di nascita cui facevo riferimento prima, che è difficile insegnare o imparare. O la si ha o non la si ha.
Una consistenza dei prodotti finiti cui ovviamente non è estranea la precisione del lavoro in vigna, decisamente sostenibile ma non solo, anche perché la collocazione, in termini di escursione, assenza di umidità e azione del vento (il quale, come giustamente mi ricorda Daniele, per le vigne è una sorta di antibiotico naturale) aiuta a mantenere il lavoro integro, a Fuligni le piante non vanno in stress idrico, i terreni si lavorano con delicatezza, non si sfoglia, le vendemmie si svolgono, una volta che si è deciso, molto velocemente, 3-4 giorni al massimo, anche perché non c’è nessuna tendenza ad assecondare sovramaturazioni. Si raccoglie a mano, si seleziona molto accuratamente sul tavolo, si diraspa altrettanto tempestivamente, poi si svolge una breve macerazione a freddo di 48 ore e via. Fermentazione in acciaio con lieviti selezionati, rimontaggi manuali mai esasperati, dato che l’obiettivo non è la sovraestrazione, e ancora malolattica spontanea, sempre in acciaio, molto lunga, perché si arriva a mettere il vino nelle botti (tonneau in piccola parte, per il Brunello, soprattutto rovere di Slavonia da 20-25 hl) solo a marzo, per poi ripassare per qualche mese in acciaio prima dell’imbottigliamento.
Principi fedeli alla filosofia, e anche in questo mi aiuta Daniele, che è un po’ l’annata e il vino a suggerire tempi e metodi, sacrosanta e giustissima metodologia vecchia come il mondo. Due soli travasi annuali, anche per questo i livelli della solforosa si mantengono decisamente ad di sotto dei parametri massimi previsti dal disciplinare per i vini biologici, poi filtrazione a 10 micron. Piccola nota ai margini, molto spesso noi giornalisti abusiamo della parola ‘pulizia’ nel descrivere procedure di cantina, inoculando nell’animo di chi legge il fatto che le stesse siano sterilizzate e disinfettate giorno e notte.
No, la pulizia è altro, è sicuramente anche fisica, cioè non escono vini fatti correttamente da cantine ‘sporche’, ma significa soprattutto questo, quello che vedo qui. Significa competenza tecnica, conoscenza del procedimento. E nessuna forzatura, né scorciatoie. E questo è davvero molto raro.
Con queste premesse si potrebbe concludere che i vini di Fuligni siano formalmente corretti e poco emozionanti, in realtà il segreto della vite è proprio questo, se la rispetti e la ascolti con attenzione ti dà tutto, tanto che quando passiamo agli assaggi, svolti nelle splendidamente romantiche sale di degustazione, collocate nei locali che un tempo ospitavano un piccolo convento di monache del XVI° secolo, ho le idee molto chiare su cosa aspettarmi. Partendo, come è logico fare, con un Rosso di Montalcino sublime come il Ginestreto, che assaggio nell’annata 2019, si capisce già in che direzione andrà il discorso.
È una bottiglia magnetica, che nasce da vigne di appena 10-12 anni di età ma dimostra qualità eccezionali. 6 mesi in tonneau, 6 mesi in acciaio, un naso molto intenso, mirtillo, poi sensazioni officinali di timo e maggiorana, una bocca succosa, tannini iodati, finale di grande persistenza con tocchi fruttato-balsamici. Wow. Bevibilità, intensità, lunghezza, questa bottiglia le ha davvero tutte. Passo al Brunello 2016, che ricordo dall’anno scorso, l’attacco al naso è sontuoso, con note di ribes nero e salmastre, sulle tonalità delle olive taggiasche, poi un tocco di sottobosco, con sfumature di rabarbaro, la bocca è altrettanto levigata, con tannini salmastri e bella succosità, persistenza lunghissima, con ritorno dei piccoli frutti, ma senza nessun ammiccamento né caramellosità. Un vino magnifico.
Passiamo poi alla Riserva 2015, ennesimo vino sovrumano, susina selvatica, poi ginepro, liquirizia e alloro al naso, bocca con tannini sapidi, lunghissima, con virate sulle tonalità fruttate e della liquirizia, e di nuovo anteprima Brunello 2017, intensissimo, succoso, lunghissimo, che mi lascia nuovamente sbalordito, così come la Riserva 2016, magnetica. Durante la degustazione restiamo in silenzio, io e Daniele, come se non ci fosse niente altro da aggiungere. Ogni tanto ci guardiamo, vagamente increduli. Nel frattempo il vino rintocca, come un gong, al centro del palcoscenico, prendendosi tutta la scena. Mi sembra di sentirne l’eco. Per una volta, dovessi pensare ad un abbinamento, sarei in difficoltà, riesco a visualizzare soltanto una Chesterfield Queen Anne, un cubano, il Quartetto per Archi n.12 in Mi Bemolle Maggiore, Op.127 di Ludwig van Beethoven, La Montagna Incantata di Thomas Mann in mano. Sono spaesato, sovrastato. È giusto che sia così. 

Quando usciamo dalla saletta a Montalcino, è indubbio, sta arrivando la sera. Una piccola lacrima di emozione si è incastrata nell’angolo dell’occhio, un po’ indecisa sul da farsi. Non riesco a ricacciarla indietro, non scende. Un po’ come la mia decisione di lasciare la cantina, ancora non sono sicuro, magari se insisto un po’ convinco Daniele a nascondermi nella barricaia. Solo per qualche giorno, prometto.

Su, animo, ragazzo, mi dico alla fine. Boys don’t cry.

Qualche minuto più tardi, dopo avere salutato e ringraziato mille volte Daniele, salgo in macchina e realizzo una cosa credo molto bella, che Montalcino ha come unica ma inestimabile possibilità di storytelling questo vino magnifico, vivo e vivace come l’uomo stesso, selvaggio e insieme regale ed elegante e travolgente, penso che allontanarsi da questo magico filo rosso sarebbe tradirlo, perché Montalcino è il vino, e questo vino è Montalcino.
Bello capirlo proprio ora, proprio qui. Mentre accendo il motore sento rigarsi una guancia. Alla fine la lacrima ha deciso che strada prendere. Così come è capitato a me.
Mi rimetto in strada, un sorriso stampato sul volto.
...segui Riccardo.

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Riccardo Corazza
Nasce a Bologna nel 1973. Lavorativamente si divide tra la consulenza aziendale e il giornalismo e la comunicazione enogastronomica, complice un lustro trascorso a Praga nella formazione in ambito HORECA per ristoranti e grossi brand internazionali. Ha collaborato con quotidiani, tra cui il Corriere della Sera, riviste, tra cui Forbes Italia e Sport Week, guide, tra cui la Guida ai Sapori e Piaceri de La Repubblica, I migliori 100 vini e vignaioli d’Italia, le Guide del Gambero Rosso e portali, tra cui Gardininotes.com. Ha lavorato in una radio rock e pubblicato 5 libri che con la ristorazione non c'entrano niente, in osservanza del vecchio adagio che è sempre opportuno confondere un po’ le acque.

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