Tom Collins cocktail in the glass decorated with tubule and lemon standing on the bar counter on the blurred background
La Casa degli Spiriti

Gin

Dalle botaniche al ginepro

Quanto azzurro di amori e di ricordi 

Gin, infido liquor, veggo ondeggiare

nel breve cerchio ove il mio gusto mordi;

o dolci selve di ginepri, rare,

a cui fischian nel grigio ottobre i tordi

lungo il patrio, selvaggio, urlante mare!”

da “Gin e ginepri”

Il genio poetico del gaudente Giosuè Carducci ci regalò questi mirabili versi, stimolato da una generosa bevuta di gin in quel di Roma, naturalmente in dolce compagnia. Parole dalle quali sembra promanare l’inconfondibile profumo delle bacche di ginepro, per un’associazione tanto immediata riguardo al nome, quanto incompleta se ci si sofferma sull’evoluzione, produttiva e consumistica, di questa bevanda.

Il gin snocciola numeri altisonanti, è protagonista indiscusso del mondo della miscelazione sin dai suoi albori, e vanta una storia affascinante, non sempre conosciuta a dovere; un percorso che si snoda fra tetre atmosfere cittadine e lussureggianti terre esotiche, navi e marinai, piaghe sociali quanto mai attuali, vasche da bagno e… gatti neri.

Vi è ormai unanimità nel designare l’Olanda quale terra di nascita del distillato a base di bacche di ginepro grazie all’opera, nel XVI secolo, del farmacista Franciscus de le Boë Sylvius, il quale intese saggiare le molteplici proprietà curative della pianta (come si vorrebbe poter addurre una tale giustificazione anche adesso, senza suscitare ilarità…). All’antenato del gin fu dato il nome di Jenever; la sua veste andò progressivamente delineandosi quale quella di un distillato di vari cereali, messo poi in infusione con bacche di ginepro e altre botaniche, e quindi distillato di nuovo. Una sorta di whisky bianco aromatizzato, nel quale, in realtà, il ginepro non venne più ad essere l’unico attore protagonista, convivendo con l’impronta marcata, e tendente al dolce, delle granaglie, e con la personalità delle altre erbe e spezie (che in Olanda, grande potenza mercantile, circolavano in abbondanza). La sua discendenza, come vedremo, intraprenderà un percorso diverso; ma il Jenever rimarrà orgogliosamente in sella, costituendo tuttora un distillato a sé stante, con un disciplinare di produzione che ripropone piuttosto fedelmente le caratteristiche originarie.

L’identità del gin, come da noi conosciuto, prese forma in Inghilterra, allora legata a doppio filo all’Olanda; oltre ad intrattenere fitti rapporti, in qualità di superpotenze in ambito commerciale, fra le due nazioni si instaurò anche un importante vincolo politico grazie al matrimonio fra Guglielmo d’Orange (futuro re Guglielmo III) e Maria II Stuart. Una volta assiso al trono, il re si adoperò per imporre stringenti limitazioni all’importazione di cognac dall’odiata Francia, al fine di favorire il patrio distillato. Come logica conseguenza, Londra divenne un bacino di utenza primario per il Jenever, e i caratteri originari della bevanda furono graditi, al punto che si intraprese la sua produzione autonoma; il nome fu declinato in Geneva, indi in Gin.

Per sfuggire alle grinfie della tassazione, gli inizi del Gin furono contraddistinti da una prevalente attività clandestina, nel retro di locali o nelle case, con utilizzo di materie prime di qualità scadente e tecniche rudimentali.

Per mascherare le evidenti imperfezioni e asperità del prodotto, questo veniva dolcificato ulteriormente, secondo un gusto che coinciderà col primo, vero, gin inglese; e qui fa la sua comparsa il gatto nero… Quale sistema di mescita agevole e furtiva davanti a diversi locali furono posizionate delle insegne raffiguranti l’animale: nient’altro che arcaici distributori automatici con apposite fessure per inserire monete e ricevere, in cambio, l’agognato liquido mediante un tubo attivato dall’interno. 

Così, oltre che facile da reperire il gin divenne anche assai economico, arrivando a sostituire la birra quale bevanda primaria per le persone meno abbienti. La necessità di incamerare qualcosa che fosse maggiormente corroborante, in luogo di un cibo spesso scarseggiante, fece passare in secondo piano la differenza di gradazione alcolica. Iniziò così il periodo buio del Gin Craze: ubriachezza di massa, strade cittadine invase da persone malridotte e teatro di atti di delinquenza scaturenti dall’alterazione, mortalità infantile in ascesa. 

La situazione divenne presto insostenibile al punto che, nel 1736, venne emanato il Gin Act, che aumentò in modo significativo la tassazione sulla produzione. Essa venne dunque a concentrarsi in capo a poche realtà aventi mezzi e competenze per garantire materie prime di maggiore qualità, e processi di distillazione più accurati.

Prende forma la veste più moderna del gin: il London Gin (denominazione che ora identifica un metodo produttivo adottabile ovunque).

La maggiore pulizia del distillato portò alla dismissione delle dolcificazioni marcate e si virò verso un gusto decisamente più secco, in cui la pungenza e balsamicità del ginepro tornò ad essere protagonista. Questo obiettivo fu perseguito con efficacia ancora maggiore in seguito all’invenzione degli alambicchi a colonna e all’introduzione dell’alcol neutro di origine cerealicola come base.

Il London Gin è, tuttora, la tipologia più conosciuta e diffusa, nonché la più rigorosa dal punto di vista del disciplinare. Esso prevede che tutte le sostanze atte ad apportare aromi siano presenti sin dall’inizio del processo, e non possa essere aggiunto nulla dopo l’uscita dall’alambicco; è altresì vietato l’utilizzo di coloranti. Ne deriva il gin più puro, con presenza più marcata della botanica principe, essenziale e secco, specialmente se si adotta la versione Dry (livello zuccherino finale inferiore a 0,1 grammi per litro).

Al London rimase comunque affiancato il gin più dolce di vecchio stampo, cui venne dato il nome di Old Tom, spesso identificato nelle etichette dal simpatico ricordo del gatto nero. Dopo un lunghissimo periodo di oblio, l’Old Tom è ritornato in auge solo negli ultimi decenni del secolo scorso, soprattutto grazie al mondo della miscelazione (e al Tom Collins, in particolare); la maggiore dolcezza ora viene perseguita con l’utilizzo di botaniche quali liquirizia e vaniglia, o con soste in legno al posto di eccessive quantità di zucchero.

Così il gin riuscì a ritagliarsi uno spazio anche fra i ceti sociali più elevati, e si arrivò a elaborarne una versione più salottiera ed attrattiva per il palato femminile come lo Sloe Gin, nella sostanza più vicino ad un liquore, aromatizzato con prugne selvatiche e con maggiore concessione al grado zuccherino.

Ma è sulle navi della leggendaria flotta inglese, e nei circoli degli ufficiali, che si posero veramente le basi per il successo su scala planetaria del gin con nuove modalità di utilizzo e di valorizzazione.

La città portuale di Plymouth divenne polo produttivo di grande rilevanza, donde la bevanda potè veramente diffondersi a macchia d’olio. Qui nacque anche il gin omonimo, ad opera della distilleria Black Friars, tuttora una delle tre denominazioni di origine previste per il distillato, con una ricetta codificata a base di sette botaniche. Il Plymouth Gin è anche l’esponente più famoso della tipologia Navy Strenght, che prevede una gradazione alcolica minima di 57% vol; questa soglia specifica deriva dalla constatazione empirica, da parte dei marinai inglesi, che solo a partire da una temperatura di 57 gradi il gin avrebbe potuto prendere fuoco a contatto con la polvere da sparo sulle navi, qualora fuoriuscito dai recipienti.

La necessità di difendersi da malattie insidiosissime durante le campagne nelle colonie fu occasione (nonché ottimo alibi per giustificare bagordi e rituali di iniziazione), per elaborare le prime versioni di cocktail che sarebbero divenuti icone della miscelazione.

Per agevolare l’assunzione dell’amarissimo preparato a base di chinino, protezione indispensabile contro la malaria, i marinai pensarono bene di accostarvi gin e limone; la successiva invenzione dell’acqua tonica (a base di estratto di chinino) ci ha consegnato nientemeno che una pietra miliare come il Gin Tonic.

La ferma volontà dei marinai di preservare la propria salute portò all’elaborazione di altre miscele salvifiche, quali gin e succo di lime per combattere lo scorbuto (Gimlet), e gin e angostura per sopportare il mal di mare (Pink Gin). 

Incomincia un periodo fiorente: la possibilità di approdare sistematicamente in tutto il mondo, diffusione anche nei circoli esclusivi, inizio dell’era della mixology: questo quadro contribuì significativamente alla definitiva consacrazione del gin nella seconda metà dell’Ottocento e agli inizi del Novecento.

Seguì, però, il periodo buio del Proibizionismo; l’esigenza di fare di necessità virtù portò alla riesumazione di prassi ormai dimenticate, quali la produzione clandestina mediante semplice infusione delle botaniche in alcol, spesso nella vasca da bagno di casa (e da qui nacque l’appellativo di bathtub gin). Possibilità che sopravvive, peraltro, ancora oggi se consideriamo che il disciplinare di produzione del gin generico (o Compound Gin) ha eliminato l’obbligo di distillazione e confermato la possibilità di utilizzare l’infusione a freddo.

Una volta cessate le restrizioni, il gin riprese la sua corsa (salvo brevi periodi di appannamento a favore della vodka) tanto che, ancora oggi, fa registrare tempi record costituendo uno dei più fertili e stimolanti terreni di sperimentazione.

I disciplinari attuali non prevedono un numero, né minimo né massimo, di botaniche utilizzabili, né tantomeno ne circoscrivono le tipologie; l’unico vincolo da rispettare è, ovviamente, la presenza del ginepro e la sua emersione al gusto (teoricamente, sarebbe prescritta la sua predominanza, caratteristica sostanzialmente aggirabile appellandosi alla soggettività del degustatore). I primi gin di stampo più moderno prevedevano l’utilizzo di poche botaniche, e non necessariamente sette, anche se questo è il numero rimasto più impresso (forse mutuato dalla ricetta del Plymouth).
Fra queste le più tradizionali e costanti sono coriandolo, cardamomo, angelica, iris, scorze di arancia e limone, a delineare un profilo secco, fresco, e in cui l’impronta del ginepro è ancora ben decisa. Progressivamente la rosa delle botaniche si è ampliata fino ad arrivare anche alla cinquantina, essendo lecito attingere alla mirabile varietà di piante, fiori, frutti e spezie che madre natura è in grado di elargire. Per agevolare ulteriormente l’espressione della creatività e della personalità del singolo produttore, è stata prevista la tipologia del Distilled Gin, che consente l’aggiunta di componenti (in diverse forme, quali anche infusi o altri distillati) successivamente alla distillazione, in particolar modo se si vuole conferire un po’ di colore (le molecole pigmentanti non potrebbero infatti essere estratte in distillazione, in quanto troppo pesanti). 

Ne consegue la difficoltà di tracciare un profilo olfattivo e gustativo tipico del gin; l’intensità e complessità del profumo, linearità o rotondità al palato, note predominanti, equilibrio fra freschezza e dolcezza, varieranno a seconda del numero e della natura delle botaniche senza dimenticare che, anche nel Distilled e nel Compound, è concesso innalzare il livello zuccherino finale rispetto al London

Si evincerà dunque che il gin è un vero e proprio foglio bianco che, come tale, concede massimo sfogo alla fantasia nonché alla necessità, tramite la scelta delle materie prime, di esprimere e valorizzare la territorialità.

Questo è l’obiettivo primario della linea Panarea Gin, lanciata nel 2016 da Federico e Lorenzo Inga, attuale generazione dell’omonima famiglia di Noto che, sin dal 1832, ha dimostrato la propria perizia nella produzione di liquori e distillati, arrivando all’apertura di stabilimenti in Piemonte a partire dal 1930 (rilevando anche la produzione dell’antica Distilleria Gambarotta).

I due Distilled Gin della linea rievocano i profumi e sapori mediterranei e inebrianti della paradisiaca isola siciliana, capaci di catapultarci in un’estate infinita fatta di mare cristallino, panorami mozzafiato e  struggenti tramonti. La spina dorsale vede la compresenza di ginepro e agrumi, e la pennellata d’autore è data dal mirto di Panarea, guizzante nei suoi effluvi balsamici; una ventata generosa di aromi, seguita da una bevuta assai rinfrescante e pulita. Il tutto a riproporre il più fedelmente possibile la genuinità della natura, senza aggiunta di additivi artificiali.
Panarea Island Gin indossa una veste leggera e frusciante; il ginepro e gli agrumi si esprimono con delicatezza, sorretti dalla spinta più energica del mirto e del coriandolo, enfatizzati con ottimi risultati dalle bollicine in un Gin Tonic equilibrato e di grande qualità (aspetto che la massificazione di questo cocktail ha fatto, purtroppo, passare in secondo piano).
Panarea Sunset Gin rievoca il mix di esuberanza e romanticismo di un tramonto sul mare; l’impronta agrumata emerge con carattere (in primis, un bellissimo pompelmo rosa), e la presenza del basilico conferisce una sferzante nota più erbacea e amaricante. Il perfetto contraltare, insomma, all’elemento dolce in un Gin Fizz elegante ed estremamente dissetante, ideale suggello di una giornata trascorsa avvolti dal caldo e appassionato abbraccio di sole e mare.

7 libri sul vino

Previous article

Fumare o collezionare…

Next article
Sara Comastri
Un passato da bancaria alle spalle, trascorso aggrappandomi alle mie numerose passioni, quali ancore di salvezza in un tumultuoso mare di numeri e budget. In particolare, il vino e i distillati mi hanno premurosamente accolto sulla riva dopo un’ondata tanto impetuosa quanto provvidenziale, risvegliando l’anelito della conoscenza, e facendo riemergere velleità sopite e inclinazioni rinnegate. Una nuova rotta intrapresa con entusiasmo, passata la soglia fatidica dei quaranta.

You may also like

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *