La Casa degli Spiriti

Ritorna a scoccare l’ora del Vermut

“É l’ora vera dell’aperitivo,
l’ora ch’io penso al Vermut e ai fondants,
in un tepore di marrons glacés.”
Questa breve citazione del giornalista e scrittore Paolo Monelli ci ricorda come il Vermut (o Vermouth, se si utilizza la grafia francese), sia stato il primo, indiscusso protagonista del rituale dell’aperitivo, che iniziò a diffondersi negli eleganti caffè e botteghe di Torino nella seconda parte dell’Ottocento. Un momento divenuto, oggigiorno, primario simbolo di convivialità, e di pausa dalle incombenze e pensieri del tran tran quotidiano, e di cui il Vermouth può essere veramente considerato il padre.
L’importanza di questa bevanda nel panorama enogastronomico italiano, e mondiale, è stata offuscata da decenni di appannamento, ove il mercato del Vermouth è stato prevalentemente supportato dall’utilizzo in mixology, piuttosto che da un consumo autonomo, in grado di farne meglio apprezzare le peculiari caratteristiche, nonché le potenzialità di abbinamento con il cibo. Fortunatamente, negli ultimi anni questo prodotto è stato interessato da una campagna di recupero e valorizzazione, degni dei suoi luccicanti trascorsi. Interventi legislativi mirati, progetti condivisi fra produttori storici, locali dedicati e nuove proposte di degustazione, stanno delineando una graduale rinascita di questa grande eccellenza italiana.
Il suddetto momento di stallo ha contribuito a creare confusione, soprattutto nella fascia di pubblico più giovane, su cosa sia effettivamente il Vermut, e come vada collocato nell’universo delle bevande alcoliche. In una posizione del tutto singolare, dal momento che non si tratta né di un distillato (poiché non viene sottoposto al processo di distillazione), né di un liquore o amaro (che hanno come base di partenza una soluzione di acqua e alcol), bensì di un vino fatto e finito, aromatizzato con un mix variabile di erbe e spezie. Fra queste, sempre presente, e in misura preponderante, deve essere l’assenzio (Artemisia Absinthium, in latino), indissolubilmente legato alla storia di questa bevanda, nonchè al suo stesso nome.
L’usanza di arricchire il vino con assenzio, e altre erbe, era consolidata già nel mondo greco e romano, con scopo prettamente medicamentoso; infatti, erano già state appurate le potenzialità curative di questa pianta (soprattutto per fegato e stomaco), nonché la sua funzione di stimolante per l’appetito, generalmente associata alle sostanze con spiccata impronta amara. Alcuni celebri scrittori, quali Plinio il Vecchio e Columella, riportano anche vere e proprie ricette.
Dopo i secoli di decadimento, conseguenti alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente e alle invasioni barbariche, il Medioevo vide la ripresa dell’impiego del binomio vino – vegetali a scopi medicinali, con l’assenzio sempre protagonista; fra gli altri, il medico e alchimista spagnolo Arnaldo da Villanova (una delle figure cui si deve la diffusione sistematica della pratica della distillazione in Europa), menziona spesso il Vinum Absynthites.
Nei secoli successivi, il vino aromatizzato all’assenzio si diffonde significativamente in molte parti d’Europa. Notevole gradimento è riscosso in Germania e nell’Europa Centrale, dove, progressivamente, ne viene praticato anche un consumo puramente voluttuario, e si conferma l’affiancamento di altre erbe e spezie a quella principale. In lingua tedesca, l’assenzio è chiamato Wermut, e il vino con esso arricchito Wermutwein. Nel Settecento, Piemonte e Granducato di Toscana intessono stretti rapporti con la corte asburgica (anche grazie a matrimoni), assorbono questo filone produttivo (che si profilava particolarmente fruttuoso in questi luoghi, data la massiccia produzione di vino), e iniziano a praticarlo sistematicamente, mutuandone anche il nome, pur con piccoli adattamenti.
Da subito, Torino dimostra di avere i requisiti per il titolo di patria del Vermouth italiano, grazie ad un consolidato, e qualificato, tessuto produttivo di confettieri e liquoristi (inizialmente divenuti famosi per i rosolii), i quali arrivarono anche a costituire una corporazione. La data di nascita ufficiale del Vermut in città è il 1786, anno in cui Antonio Benedetto Carpano arricchisce un vino da uve Moscato con una miscela di 30 erbe e spezie, e lo spedisce alla corte dei Savoia. La nuova bevanda incontrò sempre più il gradimento della famiglia reale, al punto che, nel 1840, fu deciso di avviare una produzione di Vermut nella tenuta di Pollenzo, sotto la supervisione dell’enologo Paolo Francesco Staglieno.
Si consolidò in questo periodo l’ambizione di ampliare gli orizzonti della bevanda, e tentare la strada del mercato internazionale; progetto reso più realistico dallo sviluppo delle ferrovie (nel 1854, fu inaugurata, ad esempio, la Torino – Genova), e di altri mezzi di comunicazione. In quest’ottica, prese forma il significativo mutamento nel processo produttivo del Vermouth piemontese, volto a conferirgli una maggiore conservabilità e longevità (in vista di viaggi più o meno lunghi), e che delineò la sua veste definitiva e moderna.
Prima dell’aromatizzazione, il vino iniziò ad essere fortificato con piccole aggiunte di ulteriore alcol, nonché addizionato poi di zucchero (per bilanciare la componente amara conferita dalle botaniche), e, man mano, anche di caramello (per arrivare all’assunzione di un colore tendente al dorato). Si andò a delineare un prodotto unico e peculiare, ormai diverso, ad esempio, dal Vermutte toscano, rimasto alla metodologia più tradizionale. Si può, dunque, affermare che il Vermouth di Torino (dicitura che ricomprendeva, per estensione, anche quello prodotto in altre parti della Regione), giunse ad assumere un’identità autonoma e ben definita (seppur recepita, a livello normativo, molto tempo dopo), e si consolidò la simbiosi fra bevanda e città; al punto che, nel periodo di grande espansione del consumo di Vermut, quasi ovunque si diffuse l’usanza di ordinare semplicemente “un Torino”.
Accanto alle suddette caratteristiche basilari, ogni produttore sviluppò una propria ricetta, un proprio particolare bouquet di erbe e spezie, tendenzialmente tenuta segreta; oltre al caposaldo costituito dall’assenzio, il novero delle botaniche utilizzate era, dunque, vasto e variegato.
Il progetto di diffusione a livello internazionale si realizzò soprattutto grazie alle grandi esposizioni commerciali (prima circoscritte a determinati territori e settori merceologici, poi a dimensione universale), che amplificarono la risonanza di quelli che sarebbero divenuti i grandi nomi del Vermouth; Carpano, Martini & Rossi, Cinzano, Freund Ballor, Cora (solo per citarne alcuni). Il progresso scientifico e tecnologico, trainato dalla Rivoluzione Industriale, supportò, inoltre, la transizione degli stessi da piccole realtà artigianali a stabilimenti industriali, e il conseguente incremento della capacità produttiva.
I Paesi ove il Vermouth di Torino conobbe un vero e proprio boom furono, soprattutto, Brasile e Argentina (forti di una numerosa comunità di emigrati italiani), Stati Uniti, e, per quanto riguarda l’Europa, Germania e Francia. Il successo della bevanda favorì anche la creazione di un indotto, quale l’avvio della coltivazione specializzata su larga scala di piante officinali nella piana di Pancalieri, tuttora il principale bacino di approvvigionamento per i produttori.
La fine dell’Ottocento, e i primi anni del Novecento, videro la definitiva affermazione del Vermouth di Torino come protagonista dell’aperitivo, nuova abitudine a suggello di un crescente benessere, e desiderio di spensieratezza. Già diversi trattati di enogastronomia di metà Ottocento (fra cui il Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confettureria di Giovanni Vialardi, cuoco e pasticciere di casa Savoia), nel delineare la successione ottimale di portate e bevande in un pranzo elegante, sancivano la collocazione del Vermut ad inizio pasto, per meglio preparare lo stomaco, e stuzzicare l’appetito. L’enologo Ottavio Ottavi, nel Calendario Agrario relativo all’anno 1881, giunge a specificare di servire “Un Vermut di Cora, o d’altra rinomata fabbrica, un’ora prima del pranzo”. Da qui, la definitiva fissazione dell’ora del Vermouth, con la calda raccomandazione di recarsi in un caffè, o in una delle botteghe che i produttori storici avevano mantenuto aperte nel centro del capoluogo, e di altre città piemontesi, per consumarne un bicchierino, accompagnato da un piattino di rinforzo. Usanza che venne sempre più promossa e pubblicizzata, anche da numerosi racconti di viaggio, che esaltavano la raffinatezza di questa italica abitudine.
Ad inizio Novecento, si diffuse, in occasione di manifestazioni ed eventi ufficiali, la prassi del Vermouth d’Onore, che prevedeva la rottura del ghiaccio (un’ora prima del pasto), con un aperitivo a base di Vermouth e stuzzichini vari, sovente servito in un locale apposito. Una lungimiranza davvero stupefacente…
Altro traino fondamentale si rivelò la mixology, che rese il Vermut protagonista di intramontabili classici, quali Negroni e Martini Cocktail. Le innovative modalità di impiego, unitamente alla necessità di conformazione a gusti più internazionali, condussero all’elaborazione delle versioni bianco e rosso (rispettivamente, con minore o maggiore aggiunta di caramello), nonché dry, con quantitativo più basso di zucchero.
Come anticipato, il XX secolo sarebbe, successivamente, stato interessato da un periodo di crisi piuttosto lungo. Oltre ad eventi universalmente nefasti, quali due conflitti mondiali e il Proibizionismo, il mondo del Vermut fu specificamente interessato dal proliferare di imitazioni (soprattutto nei Paesi che ne costituivano i principali importatori), sulle quali era ancora consentito apporre, indiscriminatamente, la dicitura Vermouth. Questa circostanza contribuì ad una perdita di consapevolezza su origini e storia della bevanda, e sulle caratteristiche distintive che ne avevano portato alla ribalta l’eccellenza; un problema affrontabile solamente mediante la stesura di un disciplinare, e la stretta associazione con una ben definita area geografica di produzione.
In questa direzione, il primo passo fu il Regolamento della Comunità Europea 1601 del 1991. Esso ha introdotto una definizione di base della categoria dei vini aromatizzati, e ha previsto l’inserimento nella stessa del Vermouth (ovunque prodotto), identificato precipuamente dalla presenza obbligatoria, e preponderante, dell’assenzio. L’Allegato II attribuisce, poi, la qualifica di Denominazione Geografica al Vermouth di Torino. Trattavasi, però, di una categoria normativa ancora ibrida, che ancora non delineava, in modo sufficientemente netto, l’identificazione fra bevanda e territorio con riferimento all’intero iter produttivo. Nel 2014, fu stabilito che, relativamente a tutte le Denominazioni Geografiche introdotte nel 1991, sarebbe stata necessaria l’adozione di un dettagliato disciplinare di produzione in sede nazionale, per ottenere il passaggio alla qualifica più stringente di Indicazione Geografica (pena la perdita di ogni forma di tutela).
Il cerchio si è finalmente chiuso con il Decreto del Ministero dell’Agricoltura del 22 marzo 2017, contenente il suddetto disciplinare di produzione, elaborato in base alla proposta concertata fra i produttori, e che sancisce l’obbligo di elaborazione nella Regione Piemonte, a partire da vini prodotti in Italia, e con utilizzo obbligatorio e precipuo dell’assenzio.

 

L’ultimo tassello del processo di valorizzazione della neonata Indicazione Geografica è stata, nel 2019, la costituzione del Consorzio di Tutela del Vermouth di Torino, che conta oggi 27 soci qualificabili come produttori storici.
Un’opera di recupero, e di definizione di nuove prospettive per questa bevanda, che non è rimasta circoscritta alla sua terra di elezione, ma ha coinvolto altri produttori in tutta la penisola (pur potendo questi utilizzare, naturalmente, la sola denominazione di Vermouth), e ha costituito un’ulteriore opportunità di espressione per i vini locali. Anche svariati, affermati bartender stanno offrendo un prezioso contributo alla causa, con la creazione di proposte volte a conferire alla bevanda un nuovo ruolo da protagonista (ad esempio, con la possibilità di scelta fra svariate tipologie ai fini del confezionamento del cocktail, o con percorsi di degustazione di Vermut lisci, in abbinamento a dolci o formaggi).
Fra i produttori facenti parte del Consorzio di Tutela del Vermouth di Torino, rientra ANTICA TORINO. I fondatori, Vittorio Zoppi e Filippo Antonelli (con la preziosa collaborazione della sommelier Paola Rogai), hanno inteso proporre una gamma diversificata di bevande alcoliche tradizionali del Piemonte, intraprendendo un approfondito percorso di studi, ricerche e sperimentazioni sulle ricette storiche, alle quali coniugare alcune innovazioni.
Il mix completo di erbe e spezie utilizzate è segreto, come da consolidata prassi, e vengono lavorate direttamente allo stato naturale, senza utilizzo di estratti o tinture preconfezionate.
La linea dedicata al Vermouth prevede tre tipologie, gustabili con soddisfazione sia da sole che in miscelazione. Il Dry (categoria che prevede un quantitativo di zuccheri non superiore a 50 g/l), presenta la peculiarità di una parziale distillazione, ad avvenuta macerazione delle botaniche nel vino. Regala note di fiori bianchi, agrumi e mela verde, al sorso esprime freschezza e una scia amaricante nitida ma levigata, che evolve nella fragranza della frutta secca. Ideale per ricreare il Vermuttino, primo drink della tradizione, con aggiunta di soda e scorza di limone.
Il Bianco è ricreato su una ricetta elaborata da Carlin (zio di Paola Rogai), dipendente FIAT e produttore di vino e Vermouth per passione, della quale è stato mantenuto l’utilizzo di radici di liquirizia proveniente dalla Calabria. Presenta profumi intensi e caldi, di frutta sciroppata e miele, ravvivati da tocchi speziati e di zenzero; la più elevata componente zuccherina apporta un bilanciamento con la componente amaricante, e regala pienezza e avvolgenza.
Il Rosso è un mirabile connubio fra la dolcezza prorompente del cioccolatino alla ciliegia e della vaniglia, e le note fresche e balsamiche di arancia rossa, rabarbaro e china; un sorso sorprendentemente equilibrato (considerata l’elevata componente zuccherina), ricco, mai stucchevole, e di lunga persistenza. Da provare in abbinamento con cioccolato fondente, con formaggi stagionati, nonché nella proposta di Americano di Luca Picchi; due parti di Vermouth, una di Bitter con top di soda, scorza di arancia e limone.
A conclusione, così si può sintetizzare il ruolo attribuibile al Vermouth nel contesto del moderno aperitivo: l’antico, e la tradizione, che ritornano per ravvivare abitudini di consumo forse un po’ appiattite e standardizzate.  Una bevanda veramente meritevole di tornare a fare bella mostra nelle vetrinette di casa, e non solo nei celebri manifesti pubblicitari d’epoca.
...segui Sara.

Sergio Marchionne

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Sara Comastri
Un passato da bancaria alle spalle, trascorso aggrappandomi alle mie numerose passioni, quali ancore di salvezza in un tumultuoso mare di numeri e budget. In particolare, il vino e i distillati mi hanno premurosamente accolto sulla riva dopo un’ondata tanto impetuosa quanto provvidenziale, risvegliando l’anelito della conoscenza, e facendo riemergere velleità sopite e inclinazioni rinnegate. Una nuova rotta intrapresa con entusiasmo, passata la soglia fatidica dei quaranta.

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