“Ohimè, tutte le cose che il Cielo cura raggiungono un punto in cui si trovano al proprio meglio, eppure gli uomini in quello che fanno perseguono solo ciò che è superficiale e facile da conseguire” Lu Yu, Il Canone del Tè, 758-761 d.C.
Il susseguirsi dell’evento epifanico di cui abbiamo parlato nel primo articolo è stata l’alternanza di tutta una serie di emozioni: gioia, incertezza, rabbia, paura.
Tutto questo ha portato e inculcato nel Tèologo ErranTe una forma di curiosità, di voglia di sapere, di stato di “insipienza” costante motore della ricerca e di voler capire la materia per poterla valorizzare al meglio senza manipolarla troppo. Questo approccio maieutico socratico è alla base del “so di non sapere” rispetto a questo argomento che ha spinto, prima ancora della ricerca della materia prima, alla ricerca della fonte, degli inizi, della storia di questa bevanda.
È solo capendo le origini che possiamo cogliere una nostra intima chiave di lettura delle cose, non possiamo essere moderni se non conosciamo il passato, non possiamo creare se non abbiamo le fondamenta solide per farlo.
Questa risalita del fiume alla ricerca della fonte, di stampo “gravneriano” si potrebbe asserire, ha portato alla conoscenza di un personaggio leggendario e storicamente riconosciuto come il “Dio del tè” che risponde al nome di Lu Yu.
Lu Yu, nato nel 733 d.C. in piena dinastia Tang (fondata nel 618 d.C.) e nato a Jingling, oggi Tianmen nell’Hubei (non lontano dal luogo di origine che ha dato vita alle cronache di queste settimane) viene trovato sulle rive di un fiume, adottato da un monaco buddhista e cresciuto all’interno del monastero di Longgai.
Allo scoppiare di una rivolta nel nord della Cina passa il fiume Yangzi e si stabilisce nel 760 a Taoxi nella provincia dello Zhejiang. Durante questo periodo tra i boschi e le colline di Taoxi, Lu Yu beve tè (che aveva imparato a fare osservando i monaci) e intrattiene rapporti con poeti, monaci e letterati del periodo oltre a portare a compimento quello che sarà una vera e propria pietra miliare, un testo sacro e di rifermento per i secoli a venire: Il chájīng, Il Canone del Tè.
Il chájīng è un trattato in tre capitoli e dieci sezioni sulle origini, la coltivazione, raccolta, lavorazione e degustazione del tè. La sua apparizione (non possiamo in quel periodo parlare di pubblicazione) avviene tra il 758 e 761 d.C.
Qui il concetto “terroiristico” del tè vien fuori per la prima volta in tutta la sua potenza: pianta, clima, metodi di lavorazione, metodi di preparazione della bevanda arrivando ad un moderno (solo per ragioni di marketing) concetto di naturalità. In un passaggio nel capitolo 1 infatti Lu Yu scrive:
“Il tè che cresce selvatico è il migliore, quello coltivato nelle piantagioni è ritenuto di minor pregio. Sia che cresca su pendici soleggiate, sia che cresca al riparo dei boschi ombrosi, i germogli color porpora sono i migliori, quelli verdi di seconda qualità”.
La genialità delle sue intuizioni, l’aver riunito in un solo testo la summa del sapere finora conosciuto sul mondo del tè fa di questo testo un punto di riferimento e conferisce all’autore la nomina di “Dio del tè”. Di quest’ultima nomina sono molte le narrazioni che hanno spinto a riconoscergli questo appellativo a partire dalla sua abilità nella preparazione della bevanda fino ad una sorta di “palato assoluto” nel riconoscere le diverse acque di provenienza con cui era fatto l’infuso fino a riuscire a separare, come un Mosè biblico, le acque nella stessa tazza provenienti da due fonti diverse.
Il ruolo di questo libro in Cina è stato centrale in quanto i fondamenti ideologici della forma di Stato nella Cina pre-repubblicana (prima del 1911) erano espressi in un corpus di testi definiti classici o canonici (经 , jīng ). Questo corpus di testi variabile (da 5 si è arrivati a 13) costituiva il sillabus sulla quale si formava la classe dirigente che veniva scelta attraverso un meccanismo di selezione complicato e molto serrato che erano gli esami imperiali, paragonabili ai nostri concorsi pubblici. I candidati erano scelti sulla base della conoscenza dei testi canonici.
Non a caso la parola 经 , jīng, è tradotta come “ordito” di un tessuto nel quale si inserisce una trama. L’ordito è l’insieme dei fili che costituiscono la base per poter inserire un motivo, e rappresenta l’unione di fatti o fenomeni che interferiscono reciprocamente; di fatto rappresenta un abbozzo: la prima stesura delle linee essenziali di un’opera.
Nel nostro caso, dunque, rappresenta una parte di quelle fondamenta che per secoli hanno retto la struttura della cultura cinese e, di riflesso, è stato di esempio assoluto per tutte le altre culture che vi si sono approcciate.
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