Tra caducità ed eternità
Non ricordo più quale dei miei adorati semiotici – anche se poi era l’antropologo CLAUDE LÉVI-STRAUSS – scriveva che la cucina, nata per rendere commestibile l’incommestibile, nella sua forma più evoluta e, allo stesso, più brutale, non fa che giocare coi limiti della putrefazione.
Stagionature, maturazioni, fermentazioni e frollature altro non sono che esercizi ben congegnati di questa tensione tra commestibile e non commestibile, tra freschezza e putrescenza.
Potrebbe sembrare iperbolico – del resto è noto quanto mi piacciano le iperboli – ma pure il vino, la sostanza nella quale abito e che mi da da vivere, è l’esito di questa trasformazione: di questo tirare al limite il filo teso tra la vita e la morte.
Ma ciò vale, va da sé, solo per vini effettivamente longevi, quando non eterni, come alcuni Sauternes, e penso al Sauternes precisamente per il suo gusto, che è poi un artificio perfezionato nei secoli, di giocare con la morte, mediante l’alleanza con un suo surrogato: la botritys cinerea.
Ogni vino, a onor del vero e sempre in stricto sensu semiotico, rappresenta il superamento dell’agone – altrove e altrimenti sempre insuperato – tra natura e cultura: una tensione che è alla base di tutta la ricerca antropologica e semiotica. E benché proprio nel passaggio tra stato naturale e stato culturale l’uomo istituisce il mito, è anche attraverso le opposte categorie di crudo e cotto, fresco e putrido, bagnato e bruciato che si costituiscono sistemi simbolici rivelatori.
Il vino e, in particolare, il vino che introietta l’azione della muffa, avvicinandosi pericolosamente e squisitamente al limite della sua caducità, è il vino mitico per antonomasia, perché riesce a chiudere il cerchio di ogni umana velleità: superare i limiti della propria finitezza.
Un’operazione alchemica e taumaturgica, che concilia dionisiaco e apollineo, cultuale e culturale, mitico e mistico. E scusate se è poco.
...segui Leila.
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