La telefonata
Dante scattò dopo che Ludovico ebbe risposto al telefono.
Steno aveva chiamato il fratello per sincerarsi che stesse bene, o almeno che stesse e basta. Appena Ludovico rispose al telefono, Dante sbucò dalla cucina e, con un balzo improvviso, saltò sul padrone, capovolgendolo.
Erano da poco passate le 12:15. Ludovico si era sistemato sulla sedia a rotelle, davanti alla televisione. Teneva con sé il cartone di vino avanzato e lo sorseggiava lentamente, senza comprendere cosa stesse trasmettendo il tubo catodico. Dall’antina di una credenza si era procurato il bastone monco, che aveva imparato a nascondere per evitare che Dante glielo rovinasse del tutto. Lo teneva di fianco alla gamba destra. Nelle ultime settimane lo aveva usato poco. Tuttavia, spinto dalla sensazione di inquietudine che lo pervadeva, e per scaramanzia, che mai lo aveva abbandonato da quando il cane aveva morso l’arnese le prima volta, se l’era tenuto appresso.
Il tonfo della carrozzina fece tremare il tavolino del salotto. I residui di vino nel cartone si sparsero per terra. Un aroma stantio di etanolo e confettura di fragole si propagò per la stanza. Il bastone finì a pochi metri dal divano. Il telefono pure.
Ludovico rimase stordito dalla caduta. Impiegò un paio di secondi per rendersi conto di essere a terra. Appena il cervello elaborò la caduta, Ludovico si scrutò attorno per capire dove fosse Dante. Non lo vide. Spostò le gambe paralizzate, allungò le braccia e si apprestò a prendere la sedia a rotelle, ma, appena le braccia furono tese, Dante sbucò da dietro il muro che portava alle scale e azzannò l’avambraccio destro del padrone. Fu un morso potente e deciso. Il dolore invase il corpo di Ludovico in un istante, creando un cortocircuito nel suo cervello che si risolse solo quando vide il sangue inzuppare la manica della felpa beige. L’uomo iniziò a urlare e a colpire il cane sulla testa col braccio libero. Ma questi, rinvigorito dal dolore dei colpi ricevuti, anziché mollare la presa, aumentò la pressione delle fauci. Ludovico sentì uno strappo. Non era la felpa, già lacerata. Erano i tendini dell’avambraccio che avevano ceduto all’ira dell’animale. Emettendo un urlo che non credeva potesse uscire dalla sua gola, Ludovico guardò il muso rossastro della bestia e, sentendone il ringhio famelico mentre si apprestava a stritolargli radio e ulna, prese la testa dell’animale e infilò il pollice sinistro dentro all’occhio di Dante. Una poltiglia rossastra uscì dalla cavità che una volta conteneva l’occhio destro di Dante. Il cane mollò la presa, si allontanò di un metro e iniziò a strofinarsi la zampa sulla testa, guaendo.
Specularmente al suo padrone, Dante provava un dolore insostenibile per intensità e calore. Era come se una lama incandescente gli avesse attraversato il muso, entrando dall’occhio, oramai perduto, giungendo fino al cervello. Guaì per il dolore e aumentò la velocità con la quale si passava la zampa sulla ferita. Non ne ricavò alcun beneficio.
Ludovico, nella pausa dalla presa del cane, si portò il braccio al petto, poi passò alla sedia a rotelle. Impossibile sedersi, Dante non glielo avrebbe permesso. Alternando al dolore per l’aggressione una stanchezza mai provata prima, figlia delle notti insonni, indirizzò le forze nello scaraventare la sedia contro l’animale.
Dante venne colpito alla testa, cadendo di fianco e restando stordito e immobile per qualche secondo. In quel breve lasso di tempo, Ludovico si stese sulla pancia, ignorò il dolore per il peso caricato sul braccio martoriato e iniziò a strisciare verso il telefono. Forse suo fratello era ancora in linea. Ludovico iniziò a gridare aiuto, nella speranza il parente potesse sentirlo. Strisciò un paio di centimetri. Poi un altro paio. Poi ancora un altro. Vedeva l’apparecchio davanti a lui, in quel barlume di visuale che sangue e lacrime gli concedevano di avere. Allungò la mano. Aveva quasi toccato l’apparecchio quando Dante gli rovinò addosso, scaraventandolo addosso al divano. L’urto fu talmente forte, coadiuvato dai chili dell’animale, che Ludovico si trovò supino, di fronte al cane. Si guardarono per l’ultima volta, a tre occhi. Dante, col muso trasfigurato in un’espressione di odio e furia, col pelo fulvo madido del proprio sangue e di quello del padrone, puntò alla gola. Ludovico alzò il braccio destro, escoriato e sanguinante, in un disperato tentativo di difesa, mentre col sinistro cercava alla cieca il telefono. Non bastò. Dante lo azzannò. La carotide venne lacerata con un colpo secco. E fu qualche attimo prima che dal vaso defluisse un getto scuro e copioso di sangue, dal quale Dante avrebbe tratto un ultimo istinto di morte da riversare sul padrone, che Ludovico raggiunse a sua insaputa il bastone monco. Vibrò un colpo secco, alla cieca, carico di tutta la forza residua che Ludovico poteva avere dopo l’aggressione. Il costato di Dante venne trapassato. Il cane si staccò dal collo dell’uomo emettendo un solo guaito, poi cadde sul corpo dell’uomo, immobile. Ludovico guardò il soffitto divenire via via nero, non riuscendo a respirare per la mole dell’animale che gli comprimeva il torace, e provando uno strano sollievo dal calore del liquido che gli usciva dal collo.
Poi fu il buio.
Steno arrivò a casa del fratello un’ora dopo, assieme ai Carabinieri.
Era rimasto in linea e aveva sentito le grida del fratello. Chiamò i gendarmi col telefono della moglie, per non perdere la linea con Ludovico.
Sfondata la porta, e giunti in salotto, gli uomini trovarono dinanzi ai loro occhi una scena che nessuno avrebbe più dimenticato: in una caricatura espressionista, c’erano i corpi senza vita di Ludovico Stianigo e di Dante stretti in un abbraccio.
Le voci su quello che era accaduto furono molte, gli albaretani non persero tempo a costruire le illazioni più fantasiose.
Su un punto, però, tutte le versioni convergevano: la telefonata tra Ludovico e Steno era ancora attiva quando la porta venne sfondata.
(I capitoli precedenti: E-Cig, Ludovico, Dante, La Mannaia)
...segui Gianpietro)
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