Senso del gusto e gusto del senso

L’istanza dell’enunciazione del vino

Con questo barboso, respingente titolo – lo riconosco – intendo raccontarvi di una teoria che mi è capitato di applicare, in maniera invero piuttosto edificante, all’elemento vino.

Si tratta, va da sé, di una teoria semiotica nata in seno alla sintassi del discorso e nella quale si è soliti distinguere tra débrayage ed embrayage tendenzialmente per capire, all’interno di un testo, da dove arriva, a chi appartiene la voce narrante

Ma questa rubrica, che nasce con l’intento di applicare la semiotica al vino o, meglio, alla degustazione del vino, prevede l’accettazione di un assunto di base: ovvero che il vino sia considerato alla stregua di un testo, al pari di un sistema narrativo letterario, filmico, musicale e così via.

In questo senso, l’attività di degustazione sarà assimilabile alla lettura critica di un libro o alla visione, sempre critica, di un film o di un’opera d’arte. Come tale diventa dunque lecito domandarsi donde arriva la narrazione, chi è che, appunto, parla al suo interno e, senza addentrarci nel ginepraio dei débrayage esistenti nel testo narrativo, basterà dire che nel testo del vino abbiamo imparato a distinguere, per ora, almeno tre voci narranti.

Tre istanze da cui può provenire la narrazione che si agita all’interno della bottiglia: 

  1. Il produttore e il suo metodo.
  2. Il territorio, ovvero la zona di produzione con le sue peculiarità geomorfologiche, pedoclimatiche, ampelografiche e culturali.
  3. Il mercato: in questo caso a fare il vino, a determinarne l’esegesi, è il destinatario del vino stesso il quale determinerà un prodotto se non piacevole comunque corretto, perché realizzato in ottemperanza a un unico dio: il gusto dominante che plasma un prodotto di natura generalista e generalizzata. 

Ebbene, nei casi più “felici” – almeno da un punto di vista commerciale – le tre istanze possono trovarsi pacificamente a convivere.

È il caso di certi esemplari provenienti da territori molto codificati (in Italia DOC e più spesso DOCG) o amministrati da importanti e spesso anche virtuose realtà cooperative come sono il Trentino e l’Alto Adige vitivinicolo.

Se, però, volessimo analizzare ogni istanza per conto proprio e premesso che la terza sia, se presa da sola, quella meno interessante perché annulla, del vino, l’identità trasformandolo in un mero prodotto di mercato – il caso più emblematico è, chiaramente, quello del Tavernello – mi piacerebbe ora analizzare le prime due istanze e mostrarvi perché, nel vino come in qualunque altra narrazione, sia sempre la seconda istanza a dimostrarsi più efficace.

Premesso infatti che il vino non sgorghi spontaneamente dal terreno ma sia sempre e solo un prodotto dell’uomo, a quest’uomo starà però di decidere come realizzarlo, ovvero secondo quale istanza. Ciò vale, del resto, per qualunque testo, per qualunque innesco e se parliamo di innesco non è un caso perché per funzionare la macchina narrativa ha bisogno di dissimulare la sua stessa presenza al fine di catturare il suo pubblico. È un po’ come quando in una storia si scova un’incongruenza oppure quando, vedendo un film, s’intravede anche solo l’ombra del microfono che scende dall’alto: come si fa, a quel punto, a considerare ancora credibile la vicenda?

L’incanto, una volta svelato, è definitivamente spezzato. La magia è finita.

Ebbene, nel vino accade più o meno la stessa cosa: quando vi si riconosce anche solo un sospetto di tecnica, di costruzione, la magia scompare ed è esattamente in ottemperanza a questo principio che l’istanza numero 2, ovvero quella del terroir, sarà sempre più forte rispetto all’istanza numero 1 che, invece, per incapacità, inesperienza o vanità, mettendo l’autore al centro della sua creazione finisce per spezzarne, involontariamente, l’incanto.

Si tratta di un concetto sottile e, pertanto, decisamente impopolare: in Italia sono veramente pochi i critici che l’hanno compreso mentre tanti sono coloro che, comprendendo il punto solo per metà, finiscono per cadere preda di un’altra insidia: ovvero quella di apprezzare un vino perché, invece, per nulla costruito e, dunque, dichiaratamente “naturale”.

Premesso che mi oppongo nella maniera più risoluta alla dialettica tra vino naturale e vino convenzionale, anche presso il cosiddetto “vino naturale” la tecnica di vinificazione o, meglio, l’assenza di qualunque tecnica, è spesso così palese da svelare l’istanza che ne è alla base, al punto da rendere irriconoscibile il terroir inteso come suolo, clima e genius loci, da cui quel vino proviene.

Questo per dire che anche nei vini naturali, se smaccatamente tali, l’istanza numero 2, che tanto mi è cara, finisce per soccombere davanti alle ragioni dell’istanza numero 1.

Posto dunque che percepire un vino come naturale significa percepirne alcuni marker – sui quali decido consapevolmente di soprassedere – che ne disvelano la magia, ciò non toglie che esistano però anche vini naturali in grado di non svelarsi e, dunque, di privilegiare l’istanza numero 2 attraverso enunciazioni di carattere spaziale (il territorio), temporale (l’annata) e attanziale (e qui dobbiamo immaginare un unico attore collettivo, sociale o culturale, come la tradizione).

Ebbene sono esattamente questi i vini che amo e la semiotica mi ha aiutato a capire, tra le altre cose, perché.

* In copertina la famosa illustrazione disegnata nel 1917 da James Montgomery Flagg poi utilizzata per reclutare soldati sia nella Prima che nella Seconda Guerra Mondiale. Chi è lo Zio Sam?

 

Franco Ordine

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Leila Salimbeni
In famiglia si ritiene essere la reincarnazione del nonno materno, grande appassionato tanto di narrativa quanto di vino. Da questa vulgata mutua una grande passione per la ricerca del senso, che disciplina attraverso una laurea in Semiotica e riversa oggi in tutti i suoi testi, alla perenne ricerca del "Sacro Graal”. 

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