Taccuini di Gola

La Tavola di Pasqua

Tra dolci tentazioni e immancabili peccati di gola, conseguenti

Forse la miglior definizione di “essere contenti come una Pasqua” va riferita al fatto che, uscendo dalle settimane bigie della Quaresima, non solo esplode la primavera ma, a tavola, ci si può riconciliare con quegli innocenti peccati di gola che fanno tanto la felicità terrena.

In quest’epoca, poi, di coronaminchia, forzatamente sedati tra le pareti domestiche, ecco un piccolo viaggio alla scoperta di ricette e tradizioni diverse.

La Pasqua viene festeggiata in vari modi anche con eventi che coinvolgono intere comunità. Curiosa quella di Tredozio, sulle colline romagnole. Su tutte vi è il Campionato nazionale dei mangiatori di uova, giunto alla 55esima edizione, in cui il “matador” è riuscito a ingollare 22 uova in 3 minuti (già sgusciate, si presume).

Ma il menù di Pasqua presenta, lungo lo Stivale, tutta una serie di curiosità golose di cui proviamo a raccontarvi alcune storie.

In Piemonte l’agnello non la fa da padrone alla tavola pasquale, in quanto è tradizione accompagnarsi a un classico brasato al Barolo, mentre in Lombardia la cucina della nonna tira ancora fuori dalle madie della tradizione la torta salata, una sfoglia che contiene un impasto a base di pollo rosolato in padella con prosciutto, parmigiano, asparagi e aromi vari. Una tentazione cui non si può resistere, nella gita fuori porta di pasquetta.

Ma è in Liguria che troviamo uno dei caposaldi della cucina della resurrezione (anche del palato), ovvero la torta pasqualina. È una tradizione che risale all’epoca rinascimentale, citata da Bartolomeo Scappi, il cuoco di papa Pio V, ma esaltata dallo storico del tempo, Ortensio Lando, il quale non solo la citava come “gattafura” (perché pare ne fossero molto ghiotte le gatte di casa), ma non ebbe pudore a confessare che “a me piacquero più che all’orso il miele”. Non da meno, qualche secolo dopo, il poeta dialettale Martin Piaggiobenedetta mille volte/quella magnatina/che si fa con la torta pasqualina”. Regina delle tavole borghesi ma anche di quelle più popolari, la torta pasqualina è prodotta da asporto nelle “sciamadde” (assieme alla farinata), laddove per sciamadde si intendevano quei posti di ristoro on the road che derivano il loro etimo da fiammata: l’antica friggitoria di strada. Ma la Pasqualina che ha avuto grande testimonial in Giovanni Ansaldo il quale, sul Secolo XIX, in un memorabile articolo pubblicato nel 1930 ne esaltò le virtù, in particolar modo quelle di scià Carlotta, ostessa di sottoripa, elettivo quartiere cittadino. Una sfoglia che tradizione voleva formata da 33 veli, quali gli anni di Cristo, anche se, adesso, ci si accontenta di dieci, con all’interno bietole, uova e “prescinseua”, una sorta di cagliata a metà tra yogurt e ricotta, con uno straordinario equilibrio tra acidità e salinità. Storia nella storia il fatto che, orgoglio di ogni manualità domestica, la pasqualina veniva firmata dalla sua creatrice, con le inziali del marito incise sull’impasto in quanto, visti i grandi formati necessari per le rimpatriate pasquali, dovendo necessariamente ricorrere al fornaio di quartiere, era buona norma ricordarne la fattrice.

La torta pasqaulina ligure

Ma se il menù pasquale sta in gioioso equilibrio tra dolce e salato, come non ricordare, quindi, la ciaramicola umbra? Una ciambella dall’impasto rosso (dovuto all’Alchermes) con i confettini multicolori abbinati alla meringa che ne riveste le forme.

Alchermes e una spolverata di confetti per la ciaramicola umbra

Nel Lazio non c’è storia, abbacchio e così sia, ovvero l’agnello appena strappato, lattonzolo, al seno materno per essere immolato ai sacri riti pasquali. Qui ci soccorre la testimonianza di Filippo Chiappini, una curiosa figura di medico e letterato dell’Ottocento, che suggerì come il termine abbacchio derivasse da “ad baculum”, cioè vicino al bastone poiché, al tempo, la povera bestiola, trattenuta al laccio perché non andasse a brucare il pascolo, veniva prima stordita con quattro colpi ben assestati di bastone e poi sgozzato senza pietà per i riti della sua resurrezione, in altra veste, al piatto. Le sue interpretazioni? Le più diverse, con patate, al forno, ma anche alla cacciatora e millanta altri modi che tradizione ben conserva.

E dove non c’è festa, se non in Campania? Qua la lista sarebbe lunghissima, da meritare una sola puntata. Della pastiera sappiam tutti, quello che pochi conoscono, forse, è il casatiello, la cui origine sembra risalire agli antichi legami tra il ducato di Amalfi e Bisanzio. Una torta rustica ripiena di ogni ben di Dio tanto che, a grattare nel ricettario storico, ne esistono almeno due versioni: il casatiello, appunto, in cui le uova vengono poste intere, e crude, a sporgere dall’impasto composto da salame e pecorino, oppure il tortano, dove le uova sono già sode e tagliate a pezzi. 

A sinistra il casatiello, a destra il tortano: credits napoli.fanpage.it

Un’autentica scoperta i bocconotti calabresi, dolcetti di pasta frolla farciti di marmellata d’uva e mandorle, la cui lunga storia affonda le radici nel XIV secolo. Tradizione racconta che fossero confezionati dalle monache di Mormanno (Cosenza) per i vescovi del territorio. L’etimo si rifà alle “barchiglie”, le barchette in spagnolo, ovvero lo stampo simile, nella forma, usato all’epoca. Poi, dall’Ottocento, la tradizione venne trasposta nelle case borghesi dell’epoca e le barchiglie vennero ridotte a più ragionevoli dimensioni, con l’aggiunta del cioccolato da cui viene la definizione di bocconotti: cioè di poterseli pappare in un boccone solo.

I bocconotti, anche detti bucconotti
I bocconotti, anche detti bucconotti

In Sicilia non c’è che l’imbarazzo della scelta… su tutte fa piacere ricordare l’agnello di marzapane. Vi è la versione delle suore del convento di Maria, a Favara, nell’agrigentino, ripieno di pistacchi come l’agnello pasquale, una pasta di mandorle farcita di marmellata di cedro, con l’agnello accasciato frutto di una modellazione realizzata grazie ad appositi stampi in gesso, poi passata al forno. Ne venne colpito l’allora Cardinal Angelo Roncalli, in una sua visita pastorale nell’isola tanto che, poi, ad ogni Pasqua l’agnello di Favara gli giunse in omaggio, seguendolo fedele sino in Vaticano, arrivato alla tiara di Giovanni XXIII.

un esemplare molto ben realizzato

Concludiamo il nostro viaggio in Sardegna, un’isola a sé stante, forse, ma che proprio per questo ha saputo conservare le sue migliori tradizioni. Ecco allora “sa cordula cun pristuci”, in sostanza una treccia di intestini di agnello e capretto avvolte assieme da “sa cordula”, un retino animale, abbinata al fresco frutto dell’orto primaverile, cioè i piselli, per concludere in bellezza con le pardulas, dolcetti ripieni di ricotta aromatizzata con buccia agli agrumi, limone e arancia.

le pardulas, crediti e ricetta, qui

E Pasqua sia, per tutti, golosa e peccaminosa… tanto sono solo innocenti peccati… di gola, appunto. 

* In copertina, un’immagine dalla collezione di cartoline di auguri di Pasqua della New York Public Library e raccolte in questo articolo.

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Giancarlo Saran
Ha immolato la sua vita professionale al giuramento di Ippocrate, trapano in resta. Per proprietà transitiva ha esteso i suoi interessi oltre le fauci, inoltrandosi in quei sentieri che, dalla gola in poi, contribuiscono ad alleviare i percorsi terreni. Per anni antenna sul territorio del Gastronauta Davide Paolini, ha pubblicato a quattro mani, nel 2010, “Il Gastronauta nel Veneto” per i tipi de Il Sole 24 ore. Collabora sin dalla fondazione a “La Verità”, contitolare di due rubriche: “Peccati di Gola” e “La Storia in tavola”. Nella sua fedina editoriale appaiono articoli in svariate riviste di settore: “Spirito di Vino”, “Monsieur”, “Arbiter”, “Taste Vin”. “Papageno”. Ha fondato “L’Ordine dei Cavalieri delle Calandre”, primo fan club planetario dedicato a un tristellato.

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