Il senso del dovere

Simone di Cianni

Perché salvare una vita vale molto più di cento medaglie

Istruzioni per l’uso: se non avete mai sentito parlare del Raggruppamento subacquei ed incursori (più noto come COMSUBIN), reparto di eccellenza della Marina Militare, prima di leggere questa intervista andatevi a LEGGERE quella al suo comandante, Contrammiraglio Massimiliano Rossi. Giusto per farvi un’idea. E perdonate l’auto-citazione.
Fanno cose pericolose gli incursori e i palombari, sopra e sotto l’acqua, tra addestramenti, teatri di guerra, operazioni di salvataggio e sminamento.

Ora provate a immaginare di gestire un “Pronto soccorso mobile” in totale solitudine.

In mezzo al mare o in posti sperduti e ostili sulla terraferma, con la luce del giorno o nel buio della notte e talvolta con le pallottole che fischiano sopra la testa. Dovete curare la vittima di un’embolia, di un trauma, di un’emorragia o di un’esplosione. Magari in una valle desolata dell’Afghanistan.

Simone Di Cianni, poco più di quarant’anni, Capitano di Corvetta, è uno dei medici responsabili del Raggruppamento.

Laurea, specializzazioni e master che riempirebbero due curriculum, dalla Combat Medicine all’Otorinolaringoiatria, passando per medicina iperbarica, subacquea e chirurgia d’urgenza, prese in Italia e Stati Uniti. Per alcuni anni ha guidato anche il servizio medico della Task Force 45 a Herat.

Come si si diventa medico dei reparti speciali della Marina?

«Se si è già laureati, si può fare un concorso a nomina diretta con cui si ottiene il grado da sottotenente di vascello; in alternativa si segue l’iter classico dell’Accademia Navale in cui la laurea viene conseguita insieme alle esperienze che fa un ufficiale di Stato Maggiore: campagne e campi di addestramento, FORMAZIONE SULL’AMERIGO VESPUCCI e tutto il resto. La Marina ha un rapporto stretto di collaborazione con l’Università di Pisa non solo in campo medico, ma anche scientifico e ingegneristico. Dal 2002 sta investendo molto, in collaborazione con varie università, per creare figure di ufficiali altamente specializzati in medicina subacquea, iperbarica e combat medicine. Dopo la laurea inizia un tirocinio, direttamente qui presso il Comsubin, in cui l’ufficiale medico prende consapevolezza delle apparecchiature subacquee e dei trattamenti da erogare per gestire gli incidenti».

Esiste una specializzazione universitaria in Medicina Subacquea e Iperbarica?

«C’era in passato, poi è stata “declassata” a master universitario di secondo livello che io ho conseguito nel 2020 presso l’Università di Padova. Comsubin è la culla della subacquea, soprattutto abbiamo molta esperienza pratica e per questo cerchiamo di integrare vicendevolmente le nostre competenze con quelle accademiche. Abbiamo rapporti con tutte le università italiane, una convenzione attiva con Padova e una in itinere con Pisa».

Dal punto di vista militare ha seguito un corso simile a quello dei palombari o degli incursori?

«No, solo corsi specifici, ad esempio il paracadutismo militare, che hanno lo scopo di consentire al medico di seguire e a volte affiancare gli operatori nelle loro attività. Per quanto riguarda gli incursori, che agiscono spesso in piccole aliquote, non prendo parte all’azione vera e propria perché non ho la formazione e non sarei in grado di gestire situazioni che richiedono una preparazione di altissimo livello. Da alcuni anni sono loro stessi che vengono formati a prestare il primo soccorso ai colleghi secondo le linee guida del TCCC – Tactical Combat Casualty Care. Gestita l’emergenza il paziente viene allontanato dall’azione diretta, diciamo dal fuoco, e affidato al personale medico».

Siete addestrati anche a usare le armi?

«Sì, ma solo per difesa personale. La nostra arma migliore è avere un incursore al fianco».

Quando è maturata in lei la decisione di diventare medico dei corpi speciali?

«Respirando l’aria del reparto dopo la laurea mi è venuta voglia di proseguire questo impegno che trovo molto stimolante».

Tanto addestramento fisico immagino…

«L’addestramento e l’allenamento sono fondamentali per mantenere le capacità operative: per esempio, fare lanci col paracadute senza una buona forma fisica può essere pericoloso. Quando poi si deve partire in missione, qualche mese prima si comincia e prendere confidenza con lo scenario operativo: con il team si cerca di conoscere l’ambiente e le persone con cui si entrerà in contatto e si fa una formazione specifica per il tipo di operazione».

Le doti per diventare un medico di Comsubin?

«Molta disponibilità e sacrificio: non si smette mai di studiare e migliorarsi. Bisogna anche avere un contesto familiare che ti consente di lavorare serenamente».

Le prove più dure sia fisiche che mentali che si devono affrontare?

«Sulla parte fisica non ci sono grosse difficoltà, ci si allena. È più impegnativo gestire un’urgenza da soli in mezzo al mare, con un assetto non convenzionale e un paziente critico a tante miglia di distanza dal primo soccorso possibile: è qualcosa che ti mette un po’ in difficoltà. Al tempo stesso, sono uscito rafforzato da queste esperienze. Quando facevo la specializzazione in Otorinolaringoiatra presso l’Università di Roma, dal 2016 al 2020, in ospedale ho avuto a che fare con pazienti molto più critici, ma avevo sempre qualcuno intorno: colleghi più anziani o più giovani, più esperti o meno esperti. Affrontare la problematica da soli ti carica di un’enorme responsabilità, che però viene ripagata da grandi soddisfazioni se le cose si risolvono. Fortunatamente finora sono sempre riuscito a gestire le emergenze».

L’Otorinolaringoiatria è funzionale alla subacquea?

«Senza la compensazione non si scende: bisogna conoscere tutti i meccanismi…».

Si può intervenire anche sott’acqua o solo in superficie?

«Purtroppo, sott’acqua non può intervenire né il medico né l’infermiere. Il più delle volte le persone non muoiono per la patologia da decompressione, come generalmente si crede, ma per annegamento: sotto servono solo i colleghi che ti tengono l’erogatore in bocca e ti fanno guadagnare la superficie. A quel punto si potrà rianimare il paziente o trattarlo in camera iperbarica».

La più grande soddisfazione che le ha dato questo mestiere?

«Ce ne sono tantissime, non saprei quale scegliere… tutti i soccorsi andati bene: salvare una vita, avere la riconoscenza di quella persona e poterci parlare vale più delle medaglie e degli encomi».

L’incarico o la missione che le hanno cambiato la vita?

«Può sembrare strano, ma forse quella breve parentesi fatta a Otorinolaringoiatria all’Università di Roma, perché ha cambiato il mio modo di essere medico, mi ha arricchito parecchio dandomi competenze specialistiche e mettendomi di fronte pazienti “reali”, persone che muoiono per un tumore o per cause diverse dal traumatismo».

La prima volta in operazione ha cambiato qualche cosa rispetto all’addestramento?

«No, perché avevo al mio fianco persone che si erano addestrate molto bene: hanno gestito tutto loro e io non mi sono accorto di nulla».

Provi a spiegare a un civile il legame che si crea tra operatori dei corpi speciali…

«Fiducia estrema e rispetto. È qualcosa di sottile, diverso dal rapporto che si può creare in altri contesti o in ambienti sanitari civili. Qui si creano legami molto forti e uno spirito di corpo indissolubile, conseguenza positiva anche e soprattutto delle attività che si svolgono e dei rischi che si corrono».

Gli interventi più frequenti che siete chiamati a effettuare?

«Il traumatismo chiuso senza emorragie visibili: cadute, paracadutismo o incidenti. A ruota c’è tutto ciò che è collegato con la subacquea, non parlo di annegamenti, perché quelli grazie a Dio sono abbastanza rari, però è frequente il traumatismo da pressione e l’intossicazione da gas, ipercapnìa o iperossìa (eccesso di anidride carbonica o della pressione di ossigeno nel sangue, ndr). Poi la perdita di coscienza in acqua che è qualcosa che lascia sempre sul filo del rasoio l’operatore: fortunatamente se è gestito rapidamente e con perizia si risolve senza problemi».

Esiste una più frequente causa di morte in combattimento?

«Le esplosioni. Fino a vent’anni fa le emorragie massive la facevano da padrone, oggi, come dicevo, la formazione degli stessi operatori e il loro intervento immediato riducono moltissimo la mortalità».

Com’è cambiata negli ultimi anni la combat medicine?

«Un banalissimo tourniquet (laccio emostatico con leva, ndr) è sufficiente ad arrestare un’emorragia arteriosa in attesa di raggiungere il punto di soccorso. Parlarne 15 anni fa in Italia voleva dire per forza amputare l’arto, mentre in America lo usavano già da parecchio tempo. Aver introdotto questi dispositivi o quelli di infusione intraossea o endovenosa ha fatto veramente la differenza. Diciamo che ci siamo parzialmente allineati agli Stati Uniti, ma in Italia e in Europa non abbiamo ancora riconosciuto ufficialmente la figura del “paramedico”, come hanno loro: non è né un medico né un infermiere, ma può erogare procedure molto avanzate, anche chirurgiche, come una tracheotomia. In Italia abbiamo introdotto la figura del “soccorritore militare” che può fare questo tipo di interventi, ma solo in condizioni particolari: se non c’è alternativa, fuori dal territorio nazionale e se siamo inseriti in una missione. Diversamente si ricade in un vincolo legislativo che è esclusivo della professione medica».

È cambiato anche il protocollo di soccorso?

«Sì, e con buoni risultati. Fino a non molto tempo fa si basava su un ordine di priorità noto come A.B.C.D.E., in cui il primo intervento nel soccorso riguardava le vie aeree. Oggi si è passati al M.A.R.C.H. in cui, senza entrare nei dettagli degli acronimi, abbiamo messo al primo posto le emorragie massive che nella traumatologia da guerra sono più a rischio delle vie aeree, passate al secondo posto».

C’è un’esplosione con più operatori feriti, come si fa a decidere chi curare per primo?

«Si fa il triage come in pronto soccorso e passa prima chi sta peggio. In ambito di guerra, purtroppo, perché sono decisioni non facili, si può anche eseguire un “reverse-triage” ossia la precedenza a chi ha maggiore possibilità di sopravvivere».

Scambi con i vostri omologhi stranieri?

«Tantissimi. Ci sono canali aperti con tutti i paesi NATO: alcuni ne sanno più di noi, altri ne sanno meno. I primi sono sempre quelli che hanno maturano esperienze sul campo e gli USA per questo sono all’avanguardia. Poi, come spesso succede per la tecnologia, dall’ambito militare si esportano anche protocolli ed esperienze in quello civile: c’è un travaso di competenze».

Che cos’è per lei il senso del dovere?

«È non tirarsi indietro».

Come si insegna?

«Il senso del dovere è una caratteristica insita nel personale militare, fa parte del nostro credo, e si rafforza anche attraverso il contatto con il personale più anziano da cui si possono imparare molte cose».

Cos’è per lei la paura e come si gestisce?

«Brutto sentimento la paura. In ambito professionale è il non essere all’altezza di gestire una situazione. E l’unico modo per gestirla è prepararsi e studiare al meglio, esercitandosi e dedicandosi a questo mestiere».

Rimpianti?

«Non sono tipo che ha rimpianti, seguo una strada e vado avanti. Ho apprezzato la parte chirurgica dell’Otorinolaringoiatria: ecco forse mi dispiace un po’ non poterla praticare come facevo durante la specializzazione. Ma trovo molta soddisfazione in quello che faccio».
...segui Simone Di Cianni.

 

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Carlo Bocchialini
Giornalista con un breve passato da avvocato, per le riviste del gruppo Rizzoli – Corriere della Sera, ha realizzato servizi e reportage in Italia e nel mondo per poi approdare a Parigi come corrispondente durante la presidenza Sarkozy. Ha collaborato anche con vari periodici e quotidiani nazionali. È stato professore a contratto di “Linguaggio del giornalismo” all’Università di Parma e si è diplomato in Terrorismo Internazionale all’Università di St. Andrews in Scozia. Appassionato di arti marziali da più di trent’anni, insegna Krav Maga, disciplina israeliana di difesa personale, di cui è cintura nera 2° dan e istruttore federale. (La foto è merito di Gio’ Rossi.)

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