Preferisco i distillati ai liquori, eccezion fatta per il nocino
Quello casalingo è prodotto con noci colte acerbe, quando il guscio è ancora tenero. Senza privarle del mallo, queste sono tagliate e messe a macerare in alcol con spezie dosate in modo tale che la loro intensità aromatica non sia prevalente, ma di sostegno all’impatto gustativo delle noci.
Successivamente l’alcol filtrato è miscelato con sciroppo d’acqua e zucchero. Il nocino ottenuto viene quindi imbottigliato e dopo qualche mese si può stappare. A casa dei miei era il liquore per definizione. Mio padre lo preparava con le noci colte nella notte magica di San Giovanni seguendo la ricetta della nonna, scritta su un quaderno a righe, a sua volta tramandata oralmente da non so quante generazioni, così che, quando lo assaporavo, sorbivo il frutto di un rituale secolare.
Il senso di familiarità che mi comunica il nocino è tale che la sola sua presenza mi rende ospitale un ambiente, una persona o una situazione. E qualcosa del genere successe quando capitai in casa di Anna.
L’appartamento spoglio di quadri, foto, ricordi di viaggi, mi suggeriva provvisorietà e avrei scommesso che il frigorifero fosse vuoto, o tuttalpiù custodisse un vasetto di yogurt magro, magari scaduto. Ma quando Anna prese due bicchieri versando in ciascuno un dito di nocino, la casa si riempì di calore: nel centellinarlo ritrovai sapori rassicuranti che seppero mettermi a mio agio. Soddisfatta del mio apprezzamento, lei mi spiegò che lo produceva un suo amico con le proprie noci. E forse, anche grazie a quel nocino, tra me e Anna nacque un forte legame.
Capelli scuri, lisci, magra, non la vidi mai truccata, né con scarpe diverse dalle Clark o comunque sempre senza tacco; in genere indossava jeans, camicetta e giacca e, in stagione, un trench chiaro. A suo modo era misteriosa. A Milano si fermava qualche giorno e il resto della settimana lo trascorreva a Roma, così mi disse. Lavorava per una casa editrice, non ricordo quale. Non sembrava interessata a conoscere i miei amici e non parlava mai dei suoi. Però nei lunghi fine settimana in cui si fermava a Milano sapeva prendersi cura di me. Stavamo molto a casa e uscivamo giusto per fare una piccola spesa o per cenare in qualche ristorantino, concedendoci al rientro un dito di quel liquore che non mancava mai. Stavo molto bene con Anna, e pertanto non davo peso a quello che di lei non capivo, che mi sfuggiva. Un giorno sulla metropolitana stavo alzandomi poco prima della nostra fermata, la successiva, quando lei mi trattenne chiedendomi con sarcastica freddezza se volessi comunicare a tutti dove saremmo scesi. Francamente non capii quale fosse il problema, ma l’assecondai: arrivati alla fermata, quando le porte si aprirono, e non prima, ci alzammo uscendo dal treno solo quando il tono acustico annunciò la chiusura delle portiere. Guardò allora a destra e a sinistra, neanche una persona era scesa dopo di noi e mentre io stavo sbottando, abbracciandomi constatò sorridendo che nessun nostro fan ci stava seguendo.
Chi fosse, o quali fossero le sue doti, lo scoprivo casualmente. Un pomeriggio sulla sua auto stavamo procedendo ad andatura sostenuta quando, senza quasi rallentare, imboccò un raccordo autostradale, una curva continua, controsterzando, e mentre ironicamente mi complimentavo per quel suo stile di guida, mi rispose che nei rally si guida così.
Un soleggiante venerdì mattina Anna mi prospettò di raggiungere alcuni sui amici a pranzo. La proposta mi piacque anche perché decisamente inaspettata. Quando arrivammo al ristorante in zona Bocconi i suoi amici, sei persone tra donne e uomini poco più anziani di me, ci accolsero molto cordialmente. Anna per tutto il pranzo mantenne con me un contatto fisico costante: una carezza, una mano su un braccio. La sentivo molto protettiva, come sempre, ma per quanto mi fosse vicina, avvertivo un invisibile, ma saldo filo legarla agli altri, un forte vincolo, un tacito patto. Anna indicandomi Riccardo, sulla trentina, capelli piuttosto lunghi, ma curati come la barba, mi spiegò che era l’amico del nocino. Il pranzo fu conviviale, stavo bene, non mancarono buone bottiglie e al caffè, rivolgendomi a Riccardo, esternai che ci sarebbe stato un buon nocino. Lui sorrise e rilanciò invitandoci tutti nella sua cascina emiliana dove, appena arrivati, avrebbe stappato una bottiglia di nocino “riserva” maturato, come precisò, “in botticella”. Accettammo e Anna fu molto contenta che mi piacesse l’idea di un fine settimana in campagna. Dopo poco più di un’ora arrivammo nella corte di un’accogliente cascina ristrutturata. Riccardo ci introdusse in cucina che aveva gli arredi tipicamente di campagna, ma forno, fornelli, cappa erano tecno. Poi ci portò nella dispensa, un locale seminterrato da cui si accedeva alla cantina, ordinata e messa a lustro come un salotto. Prese da uno scaffale una bottiglia di nocino “riserva” affinata qualche anno, la stappò servendocela in piccoli bicchieri.
Di colore bruno impenetrabile, era di grande piacevolezza; colsi il sapore amaricante inequivocabile del mallo ben bilanciato dalla contenuta dolcezza e la speziatura faceva da sfondo. Passeggiammo nel frutteto dove vi erano i noci, poi andammo nel paese vicino a comperare qualcosa. All’ora di cena ci sedemmo al grande tavolo di legno nel centro della cucina. Tra una bottiglia di Lambrusco e una fetta di prosciutto qualcuno accennò a una gara di tiro a segno stravinta da un italiano. Anna disse, quasi bisbigliando fra sé e sé, che una cosa è centrare un bersaglio fisso, tutt’altra sparare a uno mobile. L’attimo di silenzio che seguì fu interrotto da Riccardo il quale suppose che in effetti il tiro al piattello potesse presentare maggiori difficoltà, per poi cambiare discorso e spiegarci che le tagliatelle che stavamo divorando erano preparate con un impasto anche di semola di grano duro per dare più consistenza alla pasta. La cena finì a nocino. Ci ritirammo presto. La nostra camera, al primo piano, sapeva di campagna: travi a vista di legno scuro lucidissimo percorrevano il soffitto, una grande stufa di cotto occupava parte di una parete, un pesante armadio ne occupava un’altra, il letto era grande con lenzuola profumate di lavanda e, unica pecca, cigolava un pochino.
Era mattina presto quando mi svegliò il rumore di una moto di grossa cilindrata. Cercai di riprendere il sonno. Poco dopo sentii bussare debolmente alla porta, Anna la socchiuse, sentii Riccardo parlarle brevemente a bassa voce. Lei si vestì e scese. Guardai dalla finestra per capire cosa stesse succedendo, c’erano tutti oltre a un uomo e a una donna che avevano portato una grossa borsa. Riccardo la prese in consegna, poi la moto partì e i miei amici rientrarono. Passò diverso tempo prima che Anna tornasse; la sentii infilarsi nel letto e stringersi a me.
Era l’alba; mi addormentai e poco più tardi lei mi svegliò carezzandomi. L’abbracciai, mi fermò dicendo che aveva fame. In cucina c’erano tutti, mi sembravano tranquilli, molto cordiali. Riccardo disse che per un imprevisto doveva assentarsi, ma che noi potevamo rimanere. Nessuno, però, sembrava intenzionato a restare. Anna e io fummo i primi a partire. Eravamo già in auto quando Riccardo ci raggiunse e mi passò dal finestrino una bottiglia dicendomi “questa è per te” e mi sorrise.
Anna poi mi disse che dovevo piacergli perché quella bottiglia di nocino era un segno di amicizia, e io ne fui felice. Arrivati a Milano procedemmo nella direzione di casa mia; il nostro fine settimana sarebbe finito di lì a poco. Arrivati mi guardò; non le chiesi nulla. Lei mi sorrise, mi baciò sulla guancia e mi disse che ci saremmo rivisti presto. Scesi dall’auto, la vidi ripartire da rallysta, svoltò alla prima a destra, omettendo la freccia, ovviamente, per non anticipare a qualche fan dove avrebbe voltato. Di lì a poco una serie di circostanze ci separò. Di Anna conservo un ricordo dolce e tenero; donna imperscrutabile che associo a quegli anni che qualcuno definì di piombo.
...segui Fabiano.
*Foto credits: Licenze Creative Commons
Comments