Delicatessen

Moscato

Da bambini le emozioni sono assolute. Poi il tempo le attenua, affievoliscono, sfumano perché la trasparenza, l’ingenuità originarie si opacizzano con lo scorrere degli anni. Le suggestioni più intense vissute nell’infanzia, associate a una situazione, a una sensazione, rimarranno nell’anima diventando familiari. Pertanto vi sono musiche, atmosfere, canzoni, profumi, sapori capaci di suscitarci emozioni, anche se non li privilegiamo. Il Moscato, per esempio, pur non essendo il mio vino preferito, essendo intessuto a un ricordo d’infanzia di grande gradevolezza, è capace di risvegliarmi, più di altri, assopiti quanto piacevoli stati d’animo.
Natale era una gioia vibrante. La mia felicità prendeva forma e musicalità come la scia luminosa di una cometa accompagnata da tenui scampanellii. La luminosità si rifletteva sugli addobbi dell’albero natalizio illuminandone il puntale da me ammirato, ma sempre di sfuggita perché mia madre mi diceva che era così fragile da frantumarsi solo a guardarlo. E un Natale in età scolare a fine pranzo mio padre mi versò nel bicchiere un assaggio di Moscato. Mi ricordo che mi piacque perché era dolce, profumato e divenne parte integrante di quella gioiosa atmosfera. E da allora gli incontri con il Moscato non mi sono mai stati indifferenti e hanno aggiunto ricordi ai ricordi.
Anni dopo, ma neanche troppi, adolescente, nei pomeriggi tardo primaverili prima della maturità, con i miei amici, chi in moto, chi in auto, raggiungevamo spesso un paesino confinante con Milano, ma già campagna. La meta era un bar trattoria, o meglio, il suo dehors. Il locale, infatti, disponeva di un ampio pergolato rettangolare retto da pali di cemento grezzo separato dalla piazza del paese da una strada. Arrivavamo con un paio di chitarre e ordinavamo Moscato, amabile, leggero, beverino esattamente come adesso lo bevono i rapper negli States. Mentre l’oste stappava la prima bottiglia si accordavano le chitarre. Mi piaceva ascoltare Giorgio suonare e cantare Don’t Think Twince, it’a all right di Bob Dylan mentre Marco lo accompagnava con l’armonica, ma mi piaceva ancora di più Patrizia, qualsiasi canzone suonasse o cantasse.

Il Moscato era frizzante, fresco, dissetante. Un pomeriggio Marco arrivò con l’auto della madre, ed estrasse dal portabagagli chitarra elettrica ed amplificatore. Aveva voglia di suonare duro. Sotto il pergolato si allacciò a una presa alla base di un palo di cemento, e dopo qualche bicchiere, quando cominciavamo a essere carichi, cominciò a suonare. Inizialmente le note musicali, imprigionate in piccole sfere grandi come palline da ping pong, rimbalzavano sulla ghiaia tra i tavolini, attraversavano la strada e raggiungevano la piazza. Ma poi le sfere, come bolle di sapone, cominciarono a scoppiare.
Gli accordi di Satisfaction dei Rolling Stones, allora, finalmente liberi vibravano nell’aria e volavano in alto sino a raggiungere il campanile, illuminando il cielo come fuochi d’artificio ed echeggiando nel pergolato, nella piazza, nelle strade attorno, in tutto il paese.

Accordi sostenuti dalla chitarra acustica di Giorgio, da quella classica di Patrizia (indossava una deliziosa mini gonna rossa), dai tavolini divenuti la batteria di Charlie Watts, dalle chiavi che facevano tintinnare bottiglie e bicchieri, dalle nostre voci. Come mitra le chitarre sparavano rock, un rock corale, alimentato dalla nostra gioia, dalla nostra rabbia, dalla nostra febbre adolescenziale.
Sfebbrato, in epoca più recente, un’imprenditrice mi invitò a una cena di lavoro. Il ristorante era, ed è, a Brera. Quando il cameriere ci portò la carta dei vini, la signora mi lasciò l’incombenza della scelta. Ordinai un bianco particolare, poi però mi venne un dubbio. Anche se si trattava di una cena formale, in cui cibo e vino avrebbero svolto un ruolo di secondo piano, scegliere il vino sbagliato significava partire male, in modo inadeguato, e l’inadeguatezza è ciò che una donna meno sopporta in un uomo, qualsiasi sia il contesto. Così pensai che se avessi ordinato una Nosiola, o magari una Lugana, entrambe di sicura piacevolezza, sarei andato più sul sicuro, ma invece… e in quel momento arrivò il cameriere e mostrò l’etichetta di un Moscato secco altoatesino. Quel vino destò l’interesse della signora, che ne ignorava addirittura l’esistenza tanto da stupirsi un po’.
Le piacque. Decisamente. E quando finimmo la bottiglia, a dire il vero molto presto, non esitò a ordinarne una seconda. La cena, che temevo noiosa e ingessata, si rivelò piacevole. Usciti dal ristorante, decidemmo di proseguire la serata con un drink in via Fiori Chiari. Nell’attraversare via Pontaccio, forse per istinto, la presi per mano. Mi guardò, le sorrisi, mi sorrise. E attraversammo.
Ma per finire in modo geometrico… tornato da un viaggio, pensai di andare dai miei. Telefonai, era venerdì, mi invitarono a pranzo la domenica successiva, il momento per loro di maggior solennità per onorare un ospite. Quella mattina mi alzai di ottimo umore. Era una bella, soleggiata giornata autunnale.
Arrivato al garage di via Plinio, il Kawasaki Z 500 sembrava aspettarmi. Cominciai il consueto rituale della vestizione: la Belstaff nera catramata, il foulard, il casco integrale, i guanti. Percorsa la rampa in ripida discesa imboccai la strada verso il Bar Basso. Entrai nei viali della circonvallazione in direzione Porta Romana, il traffico era molto scorrevole e invogliava a dare di gas. Il cielo era azzurro e l’atmosfera domenicale sembrava dare tonalità più vive alla strada. Mi piaceva essere a Milano.  Arrivato a destinazione entrando nella casa dei miei genitori, sentii quell’ospitalità garbata, vorrei dire gucciniana, propria delle persone anziane.
A tavola mia madre mi chiese del mio viaggio, se con Francesca andasse tutto bene, e del lavoro. Quando servì i tortelli di spinaci fatti in casa, mio padre raccontò un episodio che già conoscevo, ma che mi piacque riascoltare. Suo zio Giovanni, siamo probabilmente negli anni quaranta del secolo scorso tra Parma e Reggio Emilia, scapolo e ormai attempato, dovendo organizzare una serata con ospiti importanti chiese a Zelmira, la governante tuttofare, di preparare i tortelli di spinaci, ma raccomandò che fossero grossi, probabilmente insistendo sulle dimensioni. Zelmira aveva un certo potere decisionale, e quando nel corso della fatidica cena portò a tavola la portata calò il silenzio. Venne servito a ciascun commensale un unico, grande tortello. Lo zio trasecolò, ma sarà stato il profumo del burro su cui i tortelli veleggiavano, l’aroma della salvia, l’effluvio del parmigiano fuso nel condimento, la fragranza della farcia che si diffondeva incidendo i tortelli con la forchetta  e forse anche la curiosità… fu un gran successo. Il nostro pranzo proseguì per concludersi con la crostata di mia madre.  Mio padre stappò una bottiglia di Moscato e mentre la mesceva per un attimo tornai a quel Natale ormai lontano, distante quanto quella perduta felicità bambina, illuminata da comete scampanellanti, con puntali natalizi che si infrangevano al solo guardarli.
Levammo i calici e di quel brindisi mi è rimasto un quasi commovente ricordo, ma dolce come il vino che ho voluto raccontarvi.

Giuseppina Di Foggia

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Fabiano Guatteri
Di poche parole, scrittore e giornalista, direttore editoriale della testata Good-Mood (www.good-mood.it), collaboro con la Guida I Ristoranti d’Italia de l’Espresso. Ho insegnato Gastronomia Sperimentale presso il Dipartimento di Chimica Farmaceutica dell’Università di Pavia. C’è dell’altro, ma basta così.

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