Nel panorama professionale contemporaneo non è facile imbattersi in una figura più edotta e poliedrica del sommelier il quale, oltre a saper amministrare l’arte del servizio, dell’oratoria e del discernimento, deve anche destreggiarsi tra una miriade di nozioni sottratte alle più disparate discipline. Geologia, fisica, chimica organica e inorganica e biologia sono infatti il suo pane quotidiano, insieme alla padronanza delle lingue e, come minimo, di Excel, al fine di avere il polso di tutto quanto entra, sosta ed esce dalla cantina cui presiede. Una professionalità e una competenza che ci riconducono alla sua etimologia, dal provenzale antico saumalier ovvero “conduttore di bestie da soma”, come a evocare l’indefesso lavoro di erudizione che il sommelier è chiamato a esercitare sul palato e sulla mente dei sui suoi ospiti.
Ma dal momento che, per noi, sarebbe stato impossibile esaurire tutte le figure degne di menzione in un’unica lista, cominciamo ora col raccogliere i testimoni di coloro che operano in un contesto di cucina per così dire “classico”. (Nella prossima puntata, invece, ci dedicheremo a coloro che officiano in un contesto più di avanguardia. )
C’è sempre un vino nuovo, c’è sempre qualcuno che conosce più di noi, ogni giorno è una sfida e io l’accetto.
Marco Reitano
In questa citazione si riassume buona parte dell’indole di Marco Reitano de La Pergola del Rome Cavalieri. Quanto alla sua competenza, Marco è un uomo abituato a “gestire la complessità”, se è vero com’è vero che la sua cantina annovera oltre 60.000 referenze distribuite su (circa) 3.500 aziende produttrici, dal 1888 ai giorni nostri. Un archivio che gli consente di ordire grandi verticali, e senza farsi mancare incursioni nei grandi formati. La cantina, divisa in più locali, climatizzati singolarmente, è stata insignita dei più prestigiosi riconoscimenti, così come il suo “curatore”, già fondatore dell’associazione dedicata alla cultura e all’arte del servizio, Noi di sala, e inventore di Vinòforum, manifestazione estiva dedicata al buon bere capitolino. Insensibile al pregiudizio o alle gerarchizzazione, tanto professionali quanto ontologiche, Marco Reitano è anche patron del movimento di riqualifica dei vini rosati italiani, che promuove attraverso la piattaforma dedicata Vini Rosati.
Benché lui ami definirsi “moderno”, per noi Vincenzo Donatiello rappresenta il cosiddetto “classico moderno” ovvero, né più né meno che la sempiterna attualità – e connessa urbanità – dell’uomo sala. Capace di combinare acutezza e sensibilità a quel basso profilo che buona parte ha nella fortuna del sommelier contemporaneo, Donatiello officia presso una delle più importanti sale dello Stivale, quella di Piazza Duomo, ad Alba, dove approda appena insignita della terza stella Michelin e di cui oggi è manager e head sommelier. Come? Attraverso un mix ben congegnato di disciplina, eleganza, progettazione e creatività, lo stesso che lo ha portato a pubblicare il suo primo libro “Io servo – Dizionario moderno per camerieri” – galeotta fu la chiusura imposta dal lockdown – che è più un prontuario o, meglio, un abbecedario concepito per indagare le motivazioni e le ragioni più profonde che abitano la nobile arte del servizio. Un testo essenziale per chiunque voglia comprendere cosa abita dietro, e dentro, la sala contemporanea.
Un curriculum lunghissimo, che sembra stridere con la sua giovane età e con la successione di esperienze inanellate finora. Non pago, oltre ai tanti premi di cui è stato insignito, Alberto Piras ha dovuto re-imparare tutto, o quasi, a seguito di un incidente che avrebbe dovuto serrargli la strada otto anni orsono. Ma la pervicacia, assieme alla profondità d’animo, sono le caratteristiche salienti di questo sommelier milanese tanto erudito quanto, anche, divertito. Un temperamento che lo porta a legarsi all’impresa di Stefania Moroni e dei suoi chef Alessandro Negrini e Fabio Pisani, dove di concerto col maître Nicola Dell’Agnolo ordisce la storia presente di quel concentrato di italianità in potenza che è oggi Il Luogo di Aimo e Nadia. Un abbinamento, in particolare, è vessillo della sua rinascita: lo spaghetto al cipollotto con lo Sherry Pedro Ximenes, come fosse un dessert. Una combinazione per cui si dovrebbe inventare una nuova parola, capace di condensare, tra loro, libertà e sensibilità.
Un ambiente ipogeo, ricavato in un cunicolo d’epoca pre-romana dove si conservano oltre 25.000 bottiglie e una camera d’invecchiamento dedicata ai formaggi. Circa 1300 le etichette presenti nella cantina del Don Alfonso 1890, da ogni parte del mondo, grandi o grandissimi formati, profondità in termini sia di millesimi che di metri sotto il livello del mare, circa 30, che culmina, peraltro, su un pozzo del VI secolo a.C. Questo è l’ufficio, e l’officio di una vita visto che vi si dedica da oltre trent’anni, di Maurizio Cerio, uomo di sala che incarna tutto il fascino e la cultura ammaliatrice del sud Italia, compresa una certa divertita ironia che lo rende, semplicemente, irresistibile. “Un creativo, generoso, buono, lunatico, geniale e insopportabile allo stesso tempo”, così come ama definirlo affettuosamente lo stesso Mario Iaccarino che con lui lavora a stretto contatto quotidianamente.
Inizia in Francia, tra l’Aquitania e la Borgogna la sua esperienza lavorativa. Tornato nella sua Taormina dirige lo stellato “Casa Grugno” per almeno 10 anni. Si trasferisce, dunque, a Torino per due anni officia presso il ristorante Del Cambio, collaborando con Matteo Baronetto. Qui il mal di Sicilia lo coglie e il richiamo della propria terra è tale da farlo tornare a casa nientemeno che con Ciccio Sultano, dov’è uno degli attori protagonisti di quella grande pièce teatrale di nome Duomo, di cui è capo sommelier. Qui non si occupa “solo” del mondo enoico ma anche di una intelligente e inedita carta dei cocktail, che assieme a quella dei vini sono l’esito della profonda cultura – e sensibilità – di Antonio Currò, tanto che perfino Wine Spectator non tarderà a consacrare il ristorante come una delle più esclusive destinazioni gastronomiche ed enologiche della Sicilia. 1.200 le referenze, per un totale di circa 11.000 bottiglie, che sono per lui vere e proprie occasioni di viaggio: finestre aperte sul paesaggio che spazia disinvoltamente dalla Francia (Champagne, Loira, Borgogna le sue passioni) alla Nuova Zelanda, per fare poi ritorno, come lui, nella Sicilia più vera e più profonda.
Uomo di sala diverso da tutti gli altri, di Paparello si conoscono poche cose: prima fra tutte il fatto che, probabilmente, non sia esattamente un sommelier. Perdonateci dunque la licenza, del resto è proprio il nostro direttore artistico, Andrea Grignaffini, a indicarcelo come “un fuoriclasse”. E non è il solo perché chi lo conosce gli attribuisce tanta sapienza quanta disinvoltura e, soprattutto, il rispetto e forse anche la venerazione prima ancora che per il vino per l’uomo che lo produce e che lo interpreta. Un filantropo (pare sia anche generosissimo), insomma, ma solo per le opere migliori, tanto che si narra che abbia acceso un mutuo per comprarli davvero, i più grandi vini dell’ecumene terrestre. E ciò dà la misura, forse solo comunque parziale, della ossessione che lo abita, lo anima e forse ancora, dopo tanti anni al servizio di Roscioli – 2800 etichette che rappresentano il meglio della produzione vitivinicola nazionale e non – ancora lo agita dall’interno. Qui, benché abbia coltivato la sensibilità nel riconoscere del vino tutte le sottigliezze, è noto perché a ogni vino si approccia nello stesso modo ovvero, fondamentalmente, con l’umiltà di chi sa di non sapere (sebbene secondo molti sia quello che ne sa di più). Edonista puro, ovvero devoto al piacere che si ricava solo dalla cultura più profonda, Maurizio Paparello detto “il Papa” è anche insospettabile adepto dell’arte dell’abbinamento, atto anche a sdrammatizzare la solennità di bottiglie eccezionali come Château Cheval Blanc 1998 che, pare, abbia servito con la pizza salsiccia e zucchine.
Fedele da dieci anni alla causa “pop”, benché oggi sia più “classic pop”, Manuele Pirovano, classe 1983, ricopre il ruolo di Maître Sommelier del ristorante D’O di Davide Oldani. Allievo di Giuseppe Vaccarini (ASPI), Manuele è regista di un servizio che gira, ormai, ad altissimi livelli, e che sa comportarsi con empatia ed efficacia in ogni situazione. Complice il passo felpato dei felini, in quello che è il suo palcoscenico, che calca con discrezione e acume, Manuele manifesta un garbo senza tempo, mai affettato ma anzi spontaneo e disinvolto, come sanno esserlo solo gli uomini sicuri, e soprattutto consci, di sé stessi. Una combinazione trascinante, quella tra carisma e umiltà, che l’ha traghettato in poco tempo ai vertici della sommellerie nazionale, di cui Pirovano rappresenta, senz’ombra di dubbio, una nuova scuola stilistica.
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