Conobbi Roberto una sera a casa mia. Era il marito di un’amica di mia moglie, appassionato di tutto ciò che del mare si possa mangiare crudo.
Passione che, poi, scoprimmo con piacere di condividere in piena sintonia con le nostre compagne; pertanto, giocoforza, organizzammo cene tematiche dove noi maschietti lavoravamo di lena almeno un’ora per aprire frutti di mare, sgusciare crostacei e affettare ricciole e orate.
Una sera, prima di una nostra cena, Roberto mi telefonò per dirmi che aveva due aragoste perfette per una spaghettata. Con il carapace delle aragoste avrei potuto preparare una bisque ristretta per condire un primo piatto, ma non di più.

Ritengo, infatti, che gli spaghetti all’aragosta, e non vorrei sembrare spocchioso nel considerarlo, siano volgari, un piatto da parvenu per parvenu, un modo per deprezzare, insomma, una prelibatezza.
Dalle due aragoste ricavai così dei medaglioni, che servii crudi, conditi con un filo di olio extravergine d’oliva e dry miso. Furono proprio quei medaglioni i protagonisti del nostro plateau tra ricci di mare, violet, ostriche, cozze pelose, tartufi e via elencando.
L’aragosta cruda è inarrivabile, ma al limite mi può piacere anche cotta, però non elaborata come alla Thermidor, ma al naturale. Mentre terminavamo la cena riaffiorò, in merito, un ricordo…
Qualche anno prima, nei Caraibi, stavo percorrendo l’istmo che unisce le due penisole dell’Isla Margarita.

Commenti