Delicatessen

L’Aragosta

Conobbi Roberto una sera a casa mia. Era il marito di un’amica di mia moglie, appassionato di tutto ciò che del mare si possa mangiare crudo.
Passione che, poi, scoprimmo con piacere di condividere in piena sintonia con le nostre compagne; pertanto, giocoforza, organizzammo cene tematiche dove noi maschietti lavoravamo di lena almeno un’ora per aprire frutti di mare, sgusciare crostacei e affettare ricciole e orate.
Una sera, prima di una nostra cena, Roberto mi telefonò per dirmi che aveva due aragoste perfette per una spaghettata. Con il carapace delle aragoste avrei potuto preparare una bisque ristretta per condire un primo piatto, ma non di più.

Ritengo, infatti, che gli spaghetti all’aragosta, e non vorrei sembrare spocchioso nel considerarlo, siano volgari, un piatto da parvenu per parvenu, un modo per deprezzare, insomma, una prelibatezza.

Dalle due aragoste ricavai così dei medaglioni, che servii crudi, conditi con un filo di olio extravergine d’oliva e dry miso. Furono proprio quei medaglioni i protagonisti del nostro plateau tra ricci di mare, violet, ostriche, cozze pelose, tartufi e via elencando.
L’aragosta cruda è inarrivabile, ma al limite mi può piacere anche cotta, però non elaborata come alla Thermidor, ma al naturale. Mentre terminavamo la cena riaffiorò, in merito, un ricordo…

Qualche anno prima, nei Caraibi, stavo percorrendo l’istmo che unisce le due penisole dell’Isla Margarita.

Stavo entrando nella parte deserta, dove il turismo non era arrivato, per raggiungere un pescatore di aragoste. Avrei potuto andare a Manzanillo, rimanendo nella parte “civilizzata” dell’isola, in cui si acquistano le buone aragoste locali, ma io volevo quelle di Los Roques, arcipelago a nord ovest di Margarita, perché hanno gusto più pieno con nuance che per certi versi potrebbero ricordare l’aroma dei ricci di mare. Arrivato a destinazione, parcheggiai davanti all’unica casa, più propriamente un capanno di pesca con nasse ammucchiate. Entrai, l’uomo mi riconobbe, mi versò nel bicchiere due dita di rum Cacique; accesi una sigaretta. Parlammo di mare, di pesca, di Los Roques. Finii il mio rum, spensi la sigaretta, mi alzai e feci la mia ordinazione: 2 aragoste di 600 grammi ciascuna.

Il peso ideale per apprezzare l’aragosta a mio avviso è di 600-800 grammi, e in ogni caso compreso in un range che va da 500 a 1000 grammi: se si supera hanno consistenza sempre più fibrosa e asciutta, se non si raggiunge si perdono nel carapace.

Il pescatore mi strinse la mano.

Entro pochi giorni le avrebbe portate al ristorante che sapeva e, lì, ci furono servite come volevo, ossia bollite, lasciate raffreddare, spaccate in due, scalzate, tagliate a grossi pezzi, ricomposte nel carapace e servite con burro fuso aromatizzato all’aglio (meglio se utilizzando il fiore anziché uno spicchio del bulbo).

L’aragosta era perfetta, carnosa, succulenta, tenace quanto basta nella sua morbidezza, con le sfumature aromatiche che mi aspettavo. Una serata indimenticabile… poi tornai alla realtà milanese, alla nostra serata gourmande di crudité che volgeva al termine.

Portai a tavola una bottiglia di rum Cacique, me ne versai due dita, accesi una sigaretta.

Massimo Gianolli

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Fabiano Guatteri
Di poche parole, scrittore e giornalista, direttore editoriale della testata Good-Mood (www.good-mood.it), collaboro con la Guida I Ristoranti d’Italia de l’Espresso. Ho insegnato Gastronomia Sperimentale presso il Dipartimento di Chimica Farmaceutica dell’Università di Pavia. C’è dell’altro, ma basta così.

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