Il tempo dei Savoia
Un tempo si diceva che la fortuna della pasticceria Sacher, a Vienna, derivava (anche) dai pellegrinaggi consolatori di chi, appena uscito dal palazzo reale dell’Imperatore Francesco Giuseppe, dopo qualche pranzo ufficiale cercava il dovuto conforto al termine di un’esperienza conviviale non certo esaltante.
Ma “A Roma non si ha notizia di pasticcerie nei dintorni del Quirinale”, chiosa soddisfatto Leonardo Visconti di Modrone, per anni Capo del Cerimoniale Diplomatico della Repubblica. Eppure, gli esordi del nuovo stato unitario, nel 1870, dopo la caduta della Roma papalina, non erano certo stati dei migliori auspici. Quando il generale Alfonso Lamarmora fece richiesta al Segretario di Stato, Cardinale Giacomo Antonelli, di avere le chiavi del Quirinale per l’arrivo di Sua Maestà Vittorio Emanuele, non ebbe risposta. Così, il giorno dopo, accompagnato dal questore Luigi Berti e dal fabbro Giovanni Capanna, prese possesso dell’antico palazzo dei Papi dopo aver fatto saltare alcune centinaia di serrature, tanto da venir soprannominato “generale dei grimaldelli”. Completata l’operazione, il 31 gennaio del 1871, il Re giunse da Firenze in treno alle quattro di notte, sotto un diluvio epocale per poi entrare in pianta stabile alcuni mesi più tardi. Furono anni di gelo tra Savoia e Santa Sede, tanto che anche molti monarchi europei ebbero scrupolo a scendere in visita a Roma per non urtare la sensibilità di Pio IX.
Bisogna anche dire che il disagio fu attenuato da una certa idiosincrasia del Re per i pranzi di rappresentanza.
Preferiva quella del suo circolo ufficiali dove si andava di polenta, salumi e formaggi oltre che di selvaggina, lepri, cinghiali, di cui Vittorio Emanuele era provetto cacciatore. Tuttavia, nelle occasioni ufficiali, mangiava così poco da creare imbarazzo per gli altri commensali. “Era solito incrociare le mani sull’elsa della spada che teneva tra le gambe, aspettando annoiato che il tutto finisse”.
Questa e altre storie sono contenute in un bel libro edito per i cento cinquantanni dello stato unitario dall’Accademia Italiana della Cucina e curato da un cultore della materia, l’accademico bolognese Maurizio Campiverdi, assieme ad altri. Un viaggio curioso che, attraverso la testimonianza dei menù dell’epoca, offre un quadro, per certi versi inedito, sull’evoluzione del gusto e dell’ospitalità ufficiale, nel corso del tempo.
Lungo l’Ottocento, infatti, cambiarono le regole dei banchetti di rappresentanza.
Il servizio “alla francese” venne sostituito dal servizio “alla russa”. Vale a dire che mentre prima le varie portate, con servizi successivi, arrivavano su grandi vassoi contemporaneamente, poi la sequenza dei piatti seguì un ordine più preciso, con un miglior rispetto delle temperature di servizio e quindi del piacere della tavola. Fu allora che presero piede i menù, sino allora sconosciuti, in maniera tale che l’ospite, potendo leggere prima quanto sarebbe stato servito, aveva modo di regolarsi di conseguenza nel dosare i suoi appetiti, posto che era prassi viaggiare attorno alle venti portate.
Inventore di questa nuova liturgia conviviale il principe Borissovic Kurakin, ambasciatore dello zar Alessandro I° a Parigi, che iniziò a proporlo nel suo palazzo, a Clichy, a partire dal 1810. La curiosità della storia legata ai pranzi ufficiali (e non) del Quirinale monarchico e poi repubblicano è un indice importante dei costumi dell’epoca, sia sul piano degli aspetti formali e decorativi, ma anche di come il gusto italiano, quel made in Italy che tutto il mondo ci invidia, sia stato a lungo una Cenerentola dimenticata.
Non solo i menù erano rigorosamente scritti in francese, ma la cucina Transalpina era dominante e, comunque, i piatti erano di taglio internazionale. Unica presenza costante “l’insalata all’italiana”, il tutto scritto, ovviamente nella lingua di Marianna. Con il regno di Umberto I le cose cambiarono, grazie soprattutto alla Regina Margherita, la quale portò al Quirinale eleganza, raffinatezza e mondanità, perfetto contraltare al consorte schivo i cui gusti andavano poco oltre il mondo dei gelati e quello dei sorbetti.
Al tempo di Margherita, la cucina di casa Savoia divenne una delle migliori e più apprezzate d’Europa, a partire dall’arte del convivio, tanto che fece arrivare i migliori arredi da Torino nonché da altre residenze reali. La Regina Margherita fu molto amata dal popolo, seconda solo a Garibaldi nell’Italia postunitaria, e forse non è un caso che, attorno al suo nome, si poteva costruire un menù completo. Ecco allora i petti di pollo (disposti come i petali del fiore), ma anche la pollanca (una gallina castrata) farcita di allodole e tartufi, così pure i medaglioni di aragoste (sempre disposte a fiore) e, per concludere in bellezza, la torta Margherita che, assieme all’omonima pizza, è giunta in salute sino a noi.
Assieme ai menù con le iniziali intrecciate dei due consorti comparvero anche i vini italiani, primo dei quali il Brolio Ricasoli, dell’omonimo barone Bettino che, per primo, codificò l’uvaggio del Chianti.
Anche la struttura del menù iniziò a snellirsi, con le entré (molto varie peraltro), le preparazioni principali, i dessert. Numerosi gli hors d’oeuvres (i fuori opera) che potevano affiancare le più diverse portate. L’influenza francese rimaneva preponderante, con le ostriche al Sauternes (quali entré) o le trote del lago Maggiore alla Richelieau. Sarebbe curioso conoscere la ricetta di una torta (gateau) alla Ricasoli o di una pasticceria alla Rossini eppure è chiaro che, queste corride caloriche, oltre a propiziare la conversazione servivano anche qualcos’altro come il punch à la romaine, una sorta di pausa rigenerante dopo una lunga serie di piatti e prima degli arrosti. Di che si trattava? Immaginate un sorbetto gelato con infusi di agrumi, tè verde e zucchero, assemblato poi con un impasto caldo di meringhe cui dava il turbo l’aggiunta di rhum, cognac o maraschino.
Con il ridursi dei piatti principali da sei prima ai tre attuali, anche il punch umbertino è entrato nell’archivio dei ricordi e con l’arrivo di Vittorio Emanuele III ci fu un’ulteriore evoluzione tanto che, durante gli anni del suo regno, si è arrivati ad una sostanziale assimilazione tra la tavola dei reali e la tavola della borghesia.
Assieme alla consorte Elena di Montenegro andarono ad abitare in una villa in via Veneto e le occasioni ufficiali si diradarono, soprattutto durante il Ventennio, considerato anche il fatto che Benito Mussolini non dava particolare importanza ai piaceri della tavola.
Il 22 dicembre 1907 comparve il primo menù vergato in italiano, il ché richiese un certo impegno anche nella traduzione di termini che non avevano ancora la loro cittadinanza linguistica. Furono anni in cui, pur avendo ancora forte dominanza la cucina francese, il prodotto nazionale cominciò a imporsi. Al Re del Belgio Alberto I vennero offerte le aragoste in salsa veneziana, i piselli di Firenze, come pure l’insalata alla palermitana.
Una nota di colore derivava poi dall’imporsi del Rossini gourmet.
Colui che era soprannominato in gioventù come il cigno di Pesaro, impostosi con opere quali l’Otello o l’Italiana in Algeri, è citato più volte nei menù ufficiali, ecco allora il consommé, il prosciutto tartufato alla Rossini, il filetto di manzo omonimo.
Ma la memoria del talentuoso compositore fu onorata pure a Parigi quando al Re, in visita ufficiale, venne offerto il timballo d’anatra alla Rossini. Anche l’abbinamento enologico vide finalmente uscire dall’ombra etichette quali Barolo, Barbaresco, Marsala e molti altri. L’epilogo di casa Savoia volgeva al termine e, dopo gli anni drammatici del secondo conflitto, il breve regno di Umberto II poco concesse ai piaceri conviviali di un Quirinale che si apprestava ad entrare nella storia repubblicana con usi, riti e tradizioni in continua evoluzione.
* In copertina, il menù del piroscafo in occasione della visita di Umberto I, datato 19 settembre 1897.
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