l'Europeo

-ISMO N. 3

Autoctoni si nasce?

Sembrerebbe quasi, per taluni, una questione razziale.

Tutto ebbe inizio con “la malora” – la fillossera, che flagellò i nostri vigneti a cavallo tra XIX e XX secolo – quando ci si persuase che sarebbe stato meglio, visto che di vigna non ce n’era più, ricominciare da capo con quei vitigni già famosi altrove, poco importava se forestieri, ché così forse il mercato sarebbe stato più condiscendente.
FILLOSSERA O PHYLLOXERA VASTATRIX, RIPRODUZIONE IN VETRO SOFFIATO, UN’IDEA DI GIOVANNI GREGOLETTO
Così accadde che varietà alloctone, quasi sempre francesi di nascita anche se oggi preferiamo chiamarle “internazionali”, vennero preferite alle antiche varietà autoctone nostrane le quali, peraltro, non erano sopravvissute.

Come sempre accade nel vino, perché tutto torna sempre lì, nel vino, il successo di questa operazione – che fu un’operazione commerciale e, come tale, assai posticcia, dobbiamo ammetterlo – lo decise il territorio.

Mi piace chiamarlo all’italiana sperando anche all’italiana il termine “territorio” abbia ormai acquisito quella profondità e ampiezza di significati – in una parola, il respiro – che questa acquisisce, se riferita al vino, guarda caso proprio in francese.

Venendo dunque al territorio, esso non si configura mai come qualcosa di già dato: non solo, quantomeno. Perché oltre alle peculiari, certo specie-specifiche condizioni geomorfologiche e pedoclimatiche, il territorio diventa tale solo mediante l’indefesso lavoro dell’uomo tanto in vigna quanto in cantina, e, soprattutto, su se stesso: assaggiando il proprio come altri vini, assaporandone attraverso le annate lo spirito del tempo, in altre parole, educandosi al fine di fare del vino, il proprio vino, un manufatto che sia vessillo e testimone di questa evoluzione, di questa aspirazione; chiamatela pure “cultura”.

Ecco allora che se da un lato possiamo – e dobbiamo – piangere la violenta scomparsa di un patrimonio ampelografico tanto ricco, il nostro, se rapportato agli altri territori dell’ecumene vinifera, allo stesso tempo dobbiamo – e possiamo – ancora una volta rallegrarci di quanto vocata al vino sia la nostra Italia tutta, a prescindere dal vitigno utilizzato per la sua espressione.

Perché il vitigno è un canale e, di conseguenza, un mezzo.

“I never did Pinot noir. I did Romanée Conti, La Tache, Richebourg. The Americans do Pinot Noir, in Oregon and in California, not me” Madame Lalou Bize Leroy

In questo dovremmo imparare davvero dai francesi i quali aborrono il vitigno quando questo è la mera espressione di se stesso; come loro, dovremmo ascoltare i nostri territori, imparare a codificarne l’intima, feconda natura, tacitando una volta per tutte la tentazione di rivendicare il vitigno, autoctono o meno, quale loro unico, legittimo rappresentante.

Impressioni di settembre… al St. Hubertus

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Ian Schiel
Un'infanzia difficile ha plasmato il suo universo estetico, decadente, e quello, più intimo e personale, del polemista filantropo. Ne ha fatto quasi una professione: presagire criticità e incastrare interessi col fine unico del bene, individuale e collettivo.

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