Un single malt è una nota, un blended è una melodia
Così Gino Paoli, nello spot di uno dei più famosi blended whisky, illustrava la fondamentale differenza alla base di un’agguerrita contesa nell’universo dello Scotch.
Un tentativo di rivalutazione della tipologia in quel momento arrancante sul piano dell’immagine e della considerazione dei consumatori (pur mantenendo il primato nei volumi), dopo avere rappresentato per lunghissimo tempo l’unica modalità espressiva del meraviglioso distillato. E, purtroppo, nemmeno in questo ambito ci si sottrae facilmente alla categorizzazione manicheistica, alla logica del bianco o nero, al fluttuare ondivago fra vere o presunte mode, che nessuno spazio lasciano all’approfondimento e a valutazioni contestualizzate e ragionate.
Non si può negare che, con riguardo al mondo del whisky, il concetto di assemblaggio (anche qualora imbellettato con il termine anglosassone blend, che nella scrivente melomane evoca il suono di un’arpa) sia attualmente avvolto da un’aura di negatività.
Quasi ridotto ad un espediente, tramite il quale le velleità qualitative ed espressive di alcune parti vengano unicamente a camuffare carenze e imperfezioni di altre, e con un risultato finale piatto, avaro di pathos, ripetitivo, apprezzabile solo da coloro che ricercano la bevuta agevole. E da qui, la tendenza compulsiva all’etichettatura ha goduto nello sfornare abusati cliché quali “prodotto commerciale”, “prodotto di massa”, “per chi non se ne intende”.
Già, perché ora è implicito che l’intenditore beva solo single malt, che ricerchi ossessivamente l’impronta produttiva e stilistica della specifica distilleria, che li reputi gli unici degni di concludere una memorabile serata, nonché di assecondare amorevolmente il turbinio di riflessioni ed emozioni nei momenti di malinconia.
E poco importa che l’ingresso del whisky nell’Olimpo dei distillati sia dovuto proprio ai blended e ai grandi nomi che ne veicolavano la produzione, e che la spallata recente dei single malt sia cominciata più come operazione di marketing, trainata poi dal rinnovato e straripante interesse per il particolarismo in luogo dell’universalismo, dal bisogno di un’associazione immediata fra il prodotto e la singola entità in cui ha preso forma (sia essa una distilleria o un territorio).
L’imbottigliamento James Eadie.
Il ribaltamento di fronte degli ultimi decenni ha senz’altro portato la qualità media dei single malt a livelli più alti, talora a vette inarrivabili (su cui anche la speculazione ha inesorabilmente posato i propri artigli).
Altrettanto indubbio è che, alla base dei blended whisky, vi sia sempre stato l’obiettivo di forgiare un prodotto costante nella qualità e nell’impronta organolettica, una sorta di comfort per il consumatore affezionato.
Il blended rende dunque manifesta l’idea, il progetto del master blender, la sua concezione di prodotto e le sue intenzioni di posizionamento, sotto molteplici aspetti: gradimento, volumi, e (ultimo ma non meno importante…), il prezzo.
Ad una prima analisi, il processo appare riconducibile all’alveo impersonale della scienza, con l’assemblaggio che viene a costituire quasi una formula matematica, o una composizione chimica. Un dato numero di single malt e single grain (whisky in cui troviamo anche frumento e altri cereali), provenienti da una determinata rosa di distillerie, con invecchiamenti prestabiliti.
Ma, ampliando la prospettiva e abbattendo convenzionali ritrosie, emerge facilmente come la conoscenza e la sensibilità richieste siano di alto spessore e degne della massima ammirazione.
Le parti del tutto possono infatti arrivare anche a quaranta e oltre, e non si può prescindere dalla conoscenza accurata del processo produttivo e della veste finale, per ognuna di esse. E il confezionamento del mix voluto va ben oltre un arido elenco.
Stabilire la proporzione fra malto e grano per ottenere il bilanciamento prefigurato fra dolcezza, rotondità e freschezza; designare un eventuale leader degno di emergere e dettare il ritmo (il cosiddetto “malto impronta”); includere o meno (e, in caso, addomesticare) l’esuberanza della torba, scegliere fra diverse età e diverse provenienze dei legni, per agire su spigoli e bevibilità e incidere sul bagaglio olfattivo e gustativo.
Una poliedrica tavolozza di colori, uno strumento a disposizione del master blender per esprimere il proprio estro e confezionare il proprio modello di whisky, un’opera d’arte e di ingegno su cui apporre la propria firma.
Prefiggendosi sempre l’ambizioso obiettivo di pervenire ad un risultato finale che sia maggiore della mera somma delle singole parti.
L’esempio, fulgido, di Trade Mark “X” di James Eadie
Anche la categoria dei blended whisky può dunque fregiarsi dei propri capolavori e vantare alcune pietre miliari, nonché raccontare storie affascinanti che travalicano i secoli.
Un fulgido esempio è il Trade Mark “X” di James Eadie; blended Scotch whisky torbato registrato nel 1887, divenuto una delle colonne portanti per la categoria, per poi incorrere nell’uscita dalla produzione e nell’oblio, vittima delle circostanze avverse che hanno afflitto il mondo del whisky nella prima metà del ventesimo secolo.
Corrispondenze sugli atti di proprietà.
Ma la forza propulsiva di un glorioso passato e di una tradizione famigliare da custodire, hanno fatto sorgere una nuova alba (nel recentissimo 2017) per questo grande prodotto.
L’evoluzione dell’etichetta.
Sorso dopo sorso, ci si dipana innanzi una narrazione coinvolgente, immagini di un devoto pronipote – Rupert Patrick all’anagrafe – che scandaglia i libri mastri del celebre avo e prende visione del minuzioso elenco di whisky da lui acquistati negli anni, assaggia bottiglie superstiti risalenti agli anni Quaranta, e decide di ricomporre un puzzle fatto di tessere talora occultate o dimenticate nella polvere.
Il tutto sotto l’egida del grande master blender Norman Mathison, convocato per l’occasione a dirigere l’orchestra.
A sinistra, Norman Mathison, il master blender; A destra, Rupert Patrick, CEO James Eadie, colui che ha fatto rivivere il marchio di whisky fondato dal suo trisnonno più di 160 anni fa.
La melodia è articolata e armoniosa; al naso la torba emerge con discrezione, un effluvio che non recalcitra ma lascia educatamente spazio ad un ampio ventaglio fatto di agrumi, frutta e fiori gialli, ciliegie sotto spirito e un voluttuoso cioccolato.
Al sorso, la conferma che tutti gli strumenti hanno apposto la propria nota con efficacia, e riescono a regalarci un appagante equilibrio fra la dolce pienezza di un cioccolatino liquoroso, una sferzata rinfrescante e nettante, una scia sobria ma persistente di sigaro come prezioso sigillo.
Le testimonianze storiche della ricetta James Eadie.
Comments