Piccola pagina di pseudo filosofia letteraria del suicidio
Il suicidio è un Genius Loci che alberga nell’animo di ognuno di noi
Doverlo ammettere è difficile; doverlo ammettere pubblicamente è imbarazzante e doverlo ammettere senza remore, significa abbracciarlo, in un ultimo atto di presenza sulla Terra.
Questo Genius ci parla da lontano attraverso le azioni di altri, conosciuti o sconosciuti.
Una eco che ci giunge da lontano e a cui noi rispondiamo “Io non lo farei mai, io non lo penserei mai”.
Ma il Genius ci osserva, attendendo paziente. La Gargolla dei nostri malesseri momentanei, abbarbicata sul palazzo di una grave (seppur momentanea) situazione finanziaria oppure sul tempio eretto a un amore che ha il solo sapore dell’abbandono. Lo specchio del “Non voglio più vivere, non ce la faccio più, vorrei morire”.
Ecco, ci sorride, questo Jinn ci sorride. Una sola volta. Tende la bocca quando la lama è poggiata sulla pelle e scrive la volontà di chi la impugna, quando la pallottola viene lucidata e fatta scivolare nel tamburo, nello stesso istante in cui l’ultimo suono che si sentirà, farà sibilare un’ultima risata al nostro divertito ospite.
Ma cos’è il suicidio? Come percepiamo questo atto, non gesto, ma atto, con cui si siglano le acquisizioni delle nostre memorie, dei nostri sorrisi e del mondo che si regala agli altri? Vale il principio che lo vede protagonista soltanto quando ci si pone la domanda, “La vita vale la pena di essere vissuta oppure è il caso di non viverla?”.
Dover (si) spiegare il significato intrinseco del gesto che contraddice Dio e la società, che crea scandalo e moda, sarebbe davvero troppo, sarebbe stendere delle lenzuola di lino nel deserto, lasciandole alle carezze della ruvida sabbia, un atto senza senso e che non darebbe frutti.
Quello che posso provare a fare qui, forse, è creare una suggestione, lasciare che il vuoto colmi altro vuoto e si faccia masticare dal pensiero, entrare in un tribunale che raccoglie pensieri, storie, acredini, populismo, snobismo e una sottile filigrana fatta della consistenza della follia.
Il processo
L’accusa:
Il suicidio è l’atto del vile, dello stolto, dell’uomo senza nerbo che decide di abbandonare ogni speranza, ogni auto motivazione per andare avanti, risollevarsi. È la via più facile, la strada che si risolve in un secondo di coraggio, con davanti al proprio ricordo, un’eternità di sconfitta e biasimo. Cosa hanno fatto le persone che si sono uccise se non lasciare ad altri l’oneroso compito di ripulire tutto? Di affrontare problemi insormontabili da soli, dovendosi sottoporre a un tormento non voluto, non cercato? Cosa hanno fatto queste persone, che per la loro vigliaccheria spesso sono diventati anche dei punti di riferimento, come Virginia Wolf, David Foster Wallace, Kurt Cobain, Jacopo Ortis, Janis Joplin (sì perché anche la parabola autodistruttiva è una via del suicidio) e altri? Cosa! Loro si cancellano, passano la spugna sulle loro paure, sulla mediocrità della loro infanzia assurgendola a disperata scusante di ogni lassismo. Sperano che tutto scompaia con la loro assenza, ma in realtà coprono con la tinta bianca una parete che prima o poi mostrerà delle crepe, sotto le quali si cela da tempo la verità, richiamando a gran voce il peccato di questi pavidi. Piccoli individui incapaci di essere migliori di quello che sono stati e di poter arrivare ad affermare “Io vivo e vivrò per farlo”.
La difesa:
“La vita, nel suo senso migliore, è fiducia nell’utilità e possibilità del nostro parteciparvi, in quanto ravvisiamo le condizioni per cui la nostra presenza quaggiù può essere attiva e benefica; venendo meno quelle condizioni, spegnendosi quella fiducia, la vita individuale si riduce a mera esistenza organica[…]il suicidio è “il volontario rifiuto della vita” […], non il semplice “procurarsi la morte”. Il suicidio è la libera scelta della morte” dichiara il testimone Guido Morselli, nel suo Il Suicidio. Dobbiamo essere oggettivi, cauti e attenti: il Genius che ci possiede territorialmente non è un persuasore, un imbonitore, egli stesso è vittima della sua figura. Egli stesso infatti, una volta terminato il passaggio, non esisterà più. È un volontario rifiuto della vita accolto da due lati dello stesso mondo.
Può essere concepito come la più alta forma di presa di coscienza cui si possa ambire, il gettarsi nel baratro con gli occhi aperti e il volto sereno.
Uccidersi, di questo stiamo parlando, può avere una connotazione miserabile, concordiamo con l’accusa, ma qui si difende il gesto consapevole di assoluta presenza sulla terra: Ortis firma il mondo che non riconosce, denuncia e protesta la società e il destino. Egli si erge lasciandosi precipitare. I musicisti lasciano le proprie opere a parlare di (per) loro e un accordo, una sinfonia, un tema sapranno soltanto far rimpiangere la forza che essi hanno dimostrato in vita e in morte. Rifiutare la vita così, significa accoglierne di nuova, come il maestro Mario Monicelli (ché quella non sarebbe stata vita, ma un’esecrabile rassegna di pietismo sociale strumentalizzato dai media), Dominique Venner che diventa un samurai occidentale che schianta la realtà in cui vive oppure come Yukio Mishima, ultimo difensore di un valore nazionale e tradizionale che si andava perdendo nel suo paese.
Un dandy, ossessionato dalla morte durante tutta la sua esistenza, che pianificò la sua fine con una lucidità glaciale, fino al rituale con il quale continuò il messaggio lasciato su carta “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre” e così facendo dimostro che si può riuscire in questo intento, aggiungerei.
Ryūnosuke Akutagawa è un altro esempio che distrugge e ricrea il percorso umano della solitudine, della disperazione, dell’impotenza e dell’incompletezza che il suo contemporaneo Kafka, in Europa, faceva assaporare attraverso scritti indimenticabili. Capace di mostrare tutto l’insostenibile peso dell’essere fuori da quello spirito moderno che stava vincendo la sua isola, che affermava una società priva di ideali legata a un Occidente non più antagonista ma “amico”. Palesando, ancor più tragicamente, la dicotomia tra la bellezza della natura (amata e ricercata) e l’orribile, frustrante miseria della condizione umana che non riesce a uscire dal circolo vizioso delle proprie meschinità. Ossessionato dalle sue paure le affrontò, pallido, ogni volta, ad ogni riga. Esteta di infinità raffinatezza scelse una dose massiccia di sonniferi, per poter andarsene senza turbare il suo aspetto, per farsi “ritrovare” nelle condizioni più adatte a un uomo che stava risorgendo attraverso i suoi occhi chiusi.
Questi sono solo alcuni degli animi non impauriti, non rassegnati, ma combattivi che di fronte all’inutilità di un nemico si lanciano avversari con la spada rivolta verso loro stessi, per far sì che il nemico possa vantarsi di averli uccisi, ma in realtà togliendogli ogni vittoria sulle loro esistenze.
Apertura dell’esibizione di Max Ernst alla galleria Au Sans Pareil, 2 Maggio 1921. Da dx a sx: René Hilsum, Benjamin Péret, Serge Charchoune, Philippe Soupault sopra con la biciletta tra le braccia, Jacques Rigaut (sotto), André Breton e Simone Kahn.
È in quest’ottica che possiamo chiamare alla memoria Jacques Rigaut: l’uomo che viaggiava con il suo suicidio all’occhiello”, che scriveva per vomitare e non per essere pubblicato, per far parte di una scuola o di una classe di intellettuali e letterati che tanto disprezzava quanto osservava con ironica e disdegnata ammirazione («È per me una necessità alimentare credere alla mediocrità della gente», ma c’è ammirazione o invidia in questa frase?).
Nato nel 1898 vive in una Parigi che è “una festa continua”, al margine di una strada lastricata di scritti versati su pagine strappate ai bloc notes, su carta di hotel e poi divorati dal movimento contrastante e distruttivo delle sue mani e del suo ghigno.
Un uomo di un’eleganza parossistica, che aveva deciso di offrire la sua esistenza alla morte, una morte appunto elegante. Con profondo senso estetico, decise di sperperare ogni grammo della sua anima in alcool, eroina, lusso. E l’amore? Noioso, si può amare, perdendo tempo in un certo senso, una ragazzetta di poche aspettative, perché si vedono in lei cose che neanche possiede e pur sapendo di vivere un amore patetico e frustrante, continuare. Perché? Perché “La noia è verità, stato puro”.
Tutto raccontato in Agenzia generale del suicidio, tutto scritto, dichiarato, offerto e scagliato contro il mondo. La mente di Rigaut è segnata dal raziocinio spietato e folle di chi si parla con la fredda e cupa perseveranza del j’accuse: un Pensiero fatto di mille congetture intellettuali, di disamine attente di una realtà che viene capovolta dal riflesso del proprio viso, un ammasso di carne fatto di essere e non essere. Un contenitore dove tutti si possono ritrovare, riverberare, tutti tranne l’anima che lo fa muovere quel corpo. Nella sua storia infatti, il dandy suicida si lancia contro uno spesso specchio uscendone con un piccolo graffio sulla fronte, quando avrebbe dovuto farsi male in modo più grave, ma con una ricomposizione del sé, dell’uomo Rigaut e delle sue condizioni/imposizioni di vita.
Scosso da profondi deliri (anche alcolici) del corpo viaggia, va nelle Americhe, torna alla sua Parigi, si intossica, si disintossica, capisce la sua maschera e ghigna, oh, ghigna e gode del rumore del suo ghigno. «Maschere volete e maschere avrete» sembra dire, anzi lo dice molto spesso in frasi che mostrano tutta la guerra tra il palcoscenico e la platea del suo quotidiano respiro «Pronuncio il mio nome, dico io e subito evoco un personaggio in realtà tanto fantomatico/astratto/arbitrario quanto l’acqua si riconosce nel simbolo H2O piuttosto che sotto forma di grandine, torrente, ecc».
Lui che con trent’anni di stanchezza sulla spalle, nel 1929 sistema la sua camera, la sua collezione di scatole di fiammiferi, si sdraia tutto vestito con il nodo della cravatta impeccabile e usando un regolo, un cuscino per attutire il rumore, si spara al cuore.
Ma si possono biasimare uomini così? E ne abbiamo soltanto citati alcuni. Si possono rendere dei “codardi”?
Si può processare il Genius, quando questo è svelatore di vette di altissima umanità, un’umanità che rasenta la perfezione a volte? Il suicidio non è esecrabile e neanche ammirevole. Siamo noi che possiamo essere o l’una o l’altra cosa, la nostra voce fa sì che ci rendiamo colpevoli o innocenti.
Tutta la vita, per quanto breve decidiamo che possa essere o che sia fatalisticamente, è un momento di elevazione e se la vita è la compagna della morte, noi dobbiamo rendere quest’ultima un atto sublime.
“Uccidersi era una buona soluzione nelle epoche in cui il suicidio era rispettato in quanto protesta o ammissione di sconfitta. Oggi non significa niente. Ci si ammazza per disturbi nervosi o per difficoltà finanziarie.”
Ennio Flaiano
E qui sta il punto. Far valere il rispetto per sé, per la propria magnifica ricerca di presenza intellettuale, per la propria ammissione di vita, colpa, codardia o coraggio, in un mondo in cui niente ha più significato.
Verdetto?
L’unica piega nell’eleganza dell’essenza a volte siamo noi. Basta capirlo. Esserne consci e amarsi molto per fare il passo più importante.
* In copertina, L’isola dei morti (Die Toteninsel), primo della serie di cinque dipinti del pittore svizzero Arnold Böcklin, realizzati tra il 1880 e il 1886 e conservato al museo d’arte di Basilea.
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