Avevo alcuni amici a cena e stavo completando il mio piatto di salmone. Si tratta di una ricetta molto semplice che ha il pregio di esaltare la morbidezza del pesce. L’ispirazione mi arrivò in un ristorantino a Newport, nella Contea irlandese del Mayo, dove mi trovavo in seguito a un’improvvisazione che mi permise di uscire indenne da un’impasse.
Prologo
Ero da Clara in un tardo pomeriggio primaverile, nella sua casa settecentesca nel cuore di Milano, comodamente affondato nella sua confortevole poltrona di pelle mentre lei, furiosa, era in piedi, tre metri davanti a me. Al culmine della rabbia, mi lanciò un foulard, anzi “il foulard” perché era lo stesso che, una delle prime sere di frequentazione, Clara stese sull’abat-jour così che la stanza si tinteggiò dei colori caldi del tramonto; dal balconcino filtrava il profumo mielato del glicine; dal vinile Bob Dylan cantava e suonava Lay, Lady, Lay e io mi persi negli occhi verdi di Clara e nei suoi lunghi capelli rossi.
E adesso ero diventato il target di quel foulard che ritenevo amico: lui provò a ubbidire alla sua padrona, in realtà goffamente, assumendo dapprima una piega quasi aereodinamica, ma poi con il procedere non dei metri, ma dei decimetri, cominciò a scomporsi aprendosi come una vela così da rallentare la corsa sino a fermarsi e cominciare un’inevitabile caduta. Però, refrattario alle leggi, non si piegò a quella di gravità come una qualsiasi obbedientina mela di Newton, e pertanto si prese tutto il tempo per atterrare a paracadute per poi afflosciarsi sul parquet dispiaciuto per avere deluso la padrona fallendo clamorosamente l’obiettivo.
Ma lei era troppo arrabbiata per accorgersi del dramma che si stava consumando ai suoi piedi.
Considerando che quel lancio non era stato minimamente liberatorio, senza attenderne la replica, sicuramente meno simbolica, decisi di uscire da quello stallo. Evitai così che Clara avesse il tempo di sfilarsi uno zoccolo e lanciarmelo, di cui avrei però apprezzato il côté glam o, peggio, di scagliare il posacenere di cristallo. In realtà non mi avrebbe gettato né l’uno né l’altro, ma per non rischiare uscii dal mio stato contemplativo per passare all’azione.
Avevo indugiato perché quando Clara si stizziva, la rabbia anziché alterarne l’armonia dei lineamenti, come generalmente fa con i più, la abbelliva ulteriormente e i capelli riflettevano tutte le sfumature del rame mentre gli occhi smeraldini diventavano più ammalianti: era una magnifica dea furiosa.
Ruppi quindi l’incanto, mi alzai e mi avvicinai a lei sin quando il mio petto incontrò le palme delle sue mani come i respingenti di un vagone ferroviario. E al pari di un bambino che quando muove i primi passi per sublimare il perduto contatto corporeo con la mamma, elabora il linguaggio, io non potendola abbracciare la raggiunsi con un sussurro, o meglio mi sentii sussurrare, a mia insaputa, “l’Irlanda ci aspetta”. Era un viaggio che Clara voleva fortemente da diverso tempo; non che l’idea non mi piacesse, ma avevo sempre qualche impedimento. E ora lei, senza ammorbidirsi, sibilò una domanda condensata in un solo avverbio interrogativo di tempo: quando?
Se avessi bleffato, se avessi tergiversato, la situazione sarebbe in modo irrimediabile peggiorata. Per cui considerando in un nanosecondo che un volo Milano-Londra si trova sempre e da Heathrow si arriva ovunque, le proposi di partire, come se l’avessi precedentemente programmato, il weekend successivo.
Una settimana dopo nel Connemara, la costa occidentale dell’Irlanda, seduto sulla carcassa di una barca nera abbandonata sulla spiaggia, osservavo il mare di Clifden. Cielo e mare grigi. L’unico rumore, era lo sciabordio delle onde intrecciato al garrito dei gabbiani, mentre avevo ancora negli occhi e nella mente le isole Aran. Ci eravamo stati il giorno prima. Arrivammo alle Aran prendendo a Galway un battello che sembrava appena uscito da un fumetto per bambini, con l’ ingenuo fumaiolo quasi come quello di una locomotiva a vapore. E la fiaba continuava tra i calessi old fashion style e quelle piccole case dal tetto di paglia in cui si entra nel soggiorno per una tazza di tè accompagnata da una crostata di uva spina o di rabarbaro.
Inis Mór: la costa calcarea e frastagliata meridionale dell’isola maggiore spazzata dal vento e dall’Atlantico.
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