Delicatessen

Calvados

In occasione di un recente mio compleanno, dopo qualche mio piatto nippo-mediterraneo, e dopo la torta, spacchettai i doni e tra questi una bottiglia di Calvados, il mio distillato preferito.
Era un Pays d’Auge, dal nome di una piccola circoscritta zona geografica normanna dove il Calvados è prodotto con doppia distillazione in alambicchi di rame, ed è quello di maggior pregio. Se dovessi chiedere ai miei amici quali siano i loro distillati favoriti, penso che il Calvados non apparirebbe nei Top 5: sembrerebbe che piaccia solo a me. Ma se ne metto a tavola una bottiglia assieme ad altri distillati “oh, il Calvados” ed è quello più mesciuto.
Il mio regalo era un’etichetta che non conoscevo, così stappai la preziosa bottiglia con una certa curiosità e nel calice colsi subito un garbato profumo di mela. Preso da quel sentore di frutto… mi ricordai di Parigi, un autunno piovoso. Frequentavo un café tra Saint Germain e il Panthéon che sembrava uscito da un quadro di Manet: tavolini di legno, applique alle pareti, cameriere attempato in camicia bianca, grembiule bianco, gilet nero, vassoio sotto il braccio come fosse baguette, e vi era un gatto appisolato su una mensola.
Ordinavo il mio Calva, le Gitanes papier maïs sul tavolo; con le persone che all’epoca frequentavo, in quei primi anni ottanta si parlava di Roland Barthes e di Michel Foucault, il nuovo modo di intendere la scrittura, tema che aleggiava nei seminari della Faculté des lettres della vicina Sorbona, nei salotti illuminati della Rive Gauche, ma anche sulle pagine culturali dei quotidiani. E il giugno successivo, quando Foucault morì, qualcuno dei miei amici elaborò un lutto. Ma si parlava anche dei grandi accadimenti mondiali, in particolare della rivoluzione islamica in Iran che cambiava lo scacchiere medio-orientale, dell’Armata Rossa entrata in Afghanistan, e che cosa avrebbero fatto gli Stati Uniti. In un pomeriggio sombre, parlando dell’America, Marie affermò  noi parigini” alludendo alla crème intellettuale “dovremmo andare più spesso a New York, a sprovincializzarci”. 
Sentii allora la voce di Claude constatare, tranquilla, pacata, volatile “Immanuel Kant non si allontanò molto dalla sua Königsberg, ma non per questo era intellettualmente provinciale“ e calò un silenzio accecante. Ebbi la sensazione che fossimo stati risucchiati, immortalati in un quadro di qualche impressionista di cui ora eravamo parte. In quel silenzio improvviso tutto si fermò, tutti eravamo immobili come statue di cera, compreso il cameriere, con il vassoio su cui poggiavano i nostri bicchieri e anche il gatto, che proprio in quell’istante aveva deciso di saltare dalla mensola a un tavolo, rimase sospeso a mezz’aria in un volo senza approdo.
Poi tutto riprese, il silenzio si spense e sollevammo i calici del nostro giro di Calvados che il cameriere nel frattempo ci aveva servito.
Ma la complessità che andavo scoprendo del Calvados del mio compleanno, mi rievocò un ricordo più recente, a Milano. Ero nel mezzo di un press lunch quando mi chiamò al cellulare l’AD di una reputata industria alimentare, che avrei dovuto intervistare. Mi disse che gli si era aperta “una finestra” di un’ora e se volevo approfittarne potevo raggiungerlo direttamente a casa. Visto che da una settimana mi rimbalzava, non lasciai perdere l’occasione. Uscito dal ristorante, abitava in esclusivo quartiere decentrato, bruciai un paio di rossi per arrivare il prima possibile. Mi accolse la moglie: poco più che quarantenne, tailleur blu e camicia azzurra, mi sembrò appena rientrata o in procinto di uscire. Mi fece strada verso lo studio del marito. Il rumore dei suoi passi mi portò senza intenzione a guardarle le scarpe dai tacchi alti. Volgendo più in alto il mio sguardo, mi ingarbugliai per un attimo nelle sue gambe nervose, scolpite, conturbanti. Cercai di cambiare campo visivo, e incappai nei suoi fianchi segnatamente ancheggianti, enfatizzati dalla gonna attillata e quando mirando più in alto giunsi ai capelli mesciati, la signora mi sbarcò nello studio del coniuge. Questi, cellulare all’orecchio, trafelato, ci incrociò dicendo ad alta voce “mi spiace, un’urgenza”.
Decisi che basta, l’intervista sarebbe finita lì. La moglie prese le mie difese, gli diede del maleducato “farmi arrivare sin lì per nulla”, e lui si scusò dicendo che era una causa di forza maggiore, e uscì. Stavo seguendolo, ma la signora mi fermò scusandosi ancora e mi chiese se avessi pranzato. “Ma certo” dissi guardando la via d’uscita. Lei, però, indicandomi il salotto con eleganza orientale, mi disse “la prego, si rilassi un attimo”. Mi fece accomodare su un divano e lei, dall’altra parte del tavolino, avvicinandosi a un fornitissimo bar mi propose un drink e prima che potessi rispondere mi suggerì il Calvados preferito del marito, a sua detta introvabile in Italia. Senza aggiungere altro lo versò in due ballon, e me ne porse uno. Poi nell’accennare a un brindisi, mentre aveva tutta la mia attenzione, si sedette sulla poltrona di fronte accavallando le gambe così da scoprire il bordo di pizzo delle sue auto-reggenti, che immediatamente coprì. Senza pensarci troppo valutai che le sue calze 30 denari erano perfette per le sue gambe: i 40 denari, per quanto non siano coprenti, non avrebbero reso giustizia, mentre le calze 20 denari avrebbero sfiorato l’ostentazione.
Dopo tale fugace, quanto staccata considerazione, mi dedicai al Calvados: di grande eleganza, il sorso era fruttato, avvolgente, vellutato, e per quanto avesse sicuramente una sostenuta alcolicità, questa era ben integrata, per nulla pungente. La signora, intuendo il mio apprezzamento, che non tardai a manifestare, presa la bottiglia mi raggiunse e me la mise fra le mani perché potessi leggerne l’etichetta. Sedendosi sul bracciolo del divano e appoggiandosi con un gomito alla spalliera accavallò le gambe a pochi centimetri dal mio naso. Poi, come i bambini alle prime letture tengono il segno con il dito, allo stesso modo con l’unghia smaltata rosso cupo del suo indice mi indicò, nell’ordine, Calvados – Pays -d’Auge – “Réserve Ancestrale“, quindi  spostò l’unghia sul nome del produttore Roger Groult avvicinandomisi ancor di più tanto che sentii i suoi capelli sfiorarmi il viso. Il suo profumo di mare, la presenza corporea che percepivo come piacevole tepore, la voce accogliente non mi trovarono insensibile, ma non avevo la certezza che tutto ciò fosse parte di un’avance. Sarebbe potuta essere semplicemente l’espressione di un’ospitalità, come dire, molto estroversa. Se fraintendendo, avessi preso l’iniziativa ne sarei uscito malissimo. Decisi pertanto di passare piuttosto per quello che non capisce e di andarmene al più presto.
Ma quando sentii il suo gomito premere sulla mia spalla non ebbi più dubbi e allora decisi che era tempo di agire. L’avrei abbracciata e con una rotazione dolce, ma determinata, l’avrei fatta stendere supina sul divano e le avrei fatto provare, sentire cosa significhi provocare un lupo. Così mi alzai velocemente, appoggiai la bottiglia sul tavolo, mi volsi verso de lei e…
ed entrò il marito trafelato come quando uscì, mentre la moglie balzò a debita distanza dal divano e quindi da me. Vedendomi il manager disse che era contento che fossi ancora lì perché avendo risolto l’urgenza telefonicamente era pronto per l’intervista. Io anche no, era l’ultima cosa che avrei voluto fare. Ma lo raggiunsi nello studio un po’ stordito dal suo Calvados, un po’stordito da sua moglie. Fu un’intervista lunga e noiosa. Finita mi accompagnò verso l’uscita chiamando la moglie che, alla porta, salutandomi molto formalmente, mi mise in mano un biglietto. Arrivai all’auto, accesi il motore, guardai il biglietto, un numero di cellulare. Mi piace cogliere l’attimo. Se non fosse rientrato il marito ero sicuro che saremmo stati bene insieme. Ma l’attimo fuggente accade inaspettato, cercarlo è un’altra storia… poi mi ero stancato delle donne che dettano la propria agenda in base a quella del marito. Accartocciai il biglietto, ingranai la prima e me ne andai.
Il Calvados del mio compleanno forse non aveva l’eleganza, la morbidezza del Roger Groult ma era notevole e non esitati a esternare quanto mi piacesse. E poi ero contento del mio presente, felice di poter carezzare ricordi senza risvegliare rimpianti.

La musica di Marco Zanoni

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Fabiano Guatteri
Di poche parole, scrittore e giornalista, direttore editoriale della testata Good-Mood (www.good-mood.it), collaboro con la Guida I Ristoranti d’Italia de l’Espresso. Ho insegnato Gastronomia Sperimentale presso il Dipartimento di Chimica Farmaceutica dell’Università di Pavia. C’è dell’altro, ma basta così.

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