L’ossatura di colline e alture,
i rami di creste e tumuli,
sono ciò che il qi segue.
Libro delle Sepolture (IX – X secolo)
“Nixon goes to China”. Con questa frase, entrata da anni nel lessico della politica soprattutto americana, si suole indicare un atteggiamento, da parte di un politico, di apertura verso i suoi interlocutori, abbandonando in parte la sua linea rigida di pensiero.
Questo modo di dire nasce a partire dal 21 Febbraio del 1972 quando il presidente statunitense Richard Nixon per primo approda in Cina per tessere una nuova trama di rapporti sino-americani dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Nixon la definì “la settimana che cambiò il mondo” non solo perché contribuì a normalizzare la relazione sino-americana ma anche per aver fatto percepire che esiste “una sola Cina” (con l’inclusione di Taiwan) grazie all’ancora attuale “Comunicato di Shanghai” pubblicato per rompere il ghiaccio e avviare la relazione (anche commerciale) tra i due paesi, addirittura scatenando un effetto domino, grazie all’impatto Nixon, che contribuì ad avvicinare il Giappone alla Cina con un inizio di dialogo fino ad allora congelato.
Zhou Enlai, rivoluzionario, politico, generale cinese e braccio destro di Mao Zedong, si occupò della sua accoglienza e organizzò il tour del presidente statunitense. Fu lui a credere in questa alleanza sino-americana congelando con la frase “Dormono nello stesso letto, ma non fanno gli stessi sogni” i rapporti tra USA e URSS.
Una delle prime sere dell’arrivo di Nixon a Pechino, dopo un incontro fuoriprogramma segreto con Mao, nell’imbarazzo generale di tutto lo staff statunitense che perse di vista il suo presidente per qualche ora, ci fu una cena insieme a Zhou Enlai e ad altri funzionari cinesi.
La moglie Pat, magistralmente vestita con un abito rosso, colore simbolico legato nella cultura cinese al capodanno, alla ricchezza, felicità e fortuna, spiccava per bellezza in mezzo al grigiume notturno dagli abiti degli altri ospiti al tavolo.
Dopo un brindisi storico per consolidare il rapporto tra i due paesi fatto con baijiu, acquavite cinese ottenuta dalla distillazione principalmente del sorgo, ci si sedette attorno un desco circolare con un centro tavola girevole in cui erano posizionate le pietanze. Il menu fu a base di anatra (alla pechinese) e Nixon dovette cimentarsi con le bacchette in una situazione istituzionale ma distesa e rilassata.
Questa cena storica fu ripresa e vista da milioni di americani che fino ad allora si erano limitati ad inventare piatti sino-americani come i biscotti della fortuna e gli involtini primavera. Nixon, inconsapevole patriarca dei food influencer, dichiarò che il suo piatto preferito fu proprio l’anatra alla pechinese e nel giro di 24 ore ci fu una “chinese food fever” che coinvolse gli Stati Uniti e tutti i ristoratori che iniziarono a proporre quei piatti fino ad allora snobbati o poco conosciuti anche grazie ad un articolo che uscì proprio sul New York Times scritto da un certo Ralph Blumenthal, giornalista dal 1964 al 2009 (i più attenti avranno ricondotto l’assonanza di questo nome al mondo culinario).
Il concetto di ospitalità per la cultura orientale è molto importante e si traduce oltre al benessere dell’ospite nel fargli vivere una esperienza sino-gastronomica in toto. Per questo motivo fu con grande gioia che uno dei regali istituzionali che la Cina fece agli USA nella figura di Nixon furono 200 grammi di tè. Ma non un tè qualunque, un Da Hong Pao. Ma non un Da Hong Pao qualunque, ma proveniente dalle 6 piante madri servite a curare pare un alto funzionario della dinastia Ming ma che affondano le radici fin dalla dinastia Song.
Gli Stati Uniti fino ad allora non erano mai stati un grande player per il mondo del tè, i cui rapporti si sono incrinati con le vicende storiche a partire dal Boston Tea Party (1773) a Pearl Harbor, in cui si chiusero i rapporti con il Giappone da cui gli americani attingevano per il tè verde (soprattutto servito freddo). Per questo motivo questo “pensiero” fu inizialmente mal visto da Nixon che additò, scherzosamente, Mao come avaro e di manica corta. Fu proprio Zhou Enlai che spiegò a Nixon il valore di quel riconoscimento, ovvero riconosceva agli USA la metà della produzione annuale di quelle piante madri, simbolo e radici storiche della cultura cinese.
Questo aspetto delle metà è un topos ricorrente in tutta la cultura cinese e affonda le sue origini in tutto quello che è l’origine del pensiero cinese.
Eraclito, che non era affatto lontano dal pensiero orientale, nel 500 a.C. scriveva: “Ciò che è opposto si concilia, dalle cose in contrasto nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contesa.”
L’opposto, insieme all’armonia, sono i principi chiave per comprendere il concetto di Yin e Yang, citati già nello Zhuangzi, fondamentale classico daoista, come aspetti polarizzanti dell’unica energia sottile, detta qi, la cui alternanza è specchio vitale di tutti gli esseri e dell’intero universo.
Analizzando il simbolo Yin 陰 se ne può cogliere il suo lato oscuro, notturno essendo lui stesso composto da ideogrammi riconducibili alla collina, nuvole rappresentando il lato buio della collina.
Il simbolo Yang 陽 ci riconduce all’opposto e al lato assolato della montagna se si vanno ad analizzare i suoi ideogrammi.
Una prima serie di simboli legata alla coppia Yin-Yang è quella delle Cinque Fasi. Le Fasi sono: Legno (mu), Fuoco (huo), Terra (tu), Metallo (jin), Acqua (shui). Le Cinque Fasi assumono caratteri di correlazione tra Yin e Yang. Così, Legno e Fuoco sono espressione dello Yang crescente che attraverso una transizione (legata alla Fase centrale Terra) cede il posto all’ascesa dello Yin, collegato al Metallo e Acqua. Questo ciclo è anche correlato ai punti cardinali (più il Centro) e stagionali (più un periodo intercalare).
In Monte si è già discusso del concetto di paesaggio e l’uso della complessa serie di simboli di cui sopra è essenziale per dare una visione all’ambiente circostante. Lo stesso termine con cui si identifica il paesaggio cinese (shanshui, montagne-acque) rappresenta un dualismo.
Nella tradizione cinese si può affermare che esiste anche un altro livello del paesaggio, non percepibile attraverso i sensi e solo in parte visibile. In questo senso sembrerebbe che il paesaggio cinese possa essere visto come un sistema costituito da tre grandi draghi: Drago settentrionale (beilong), Drago centrale (zhonglong) e Drago meridionale (nanlong) vengono descritti attraverso la lettura dei sistemi montuosi e fluviali, ovvero alcuni di essi possono coincidere con i grandi fiumi cinesi o le catene montuose.
Il drago (long in cinese, 龍) è un simbolo benevolo per la cultura orientale e viene rappresentato prendendo spunto da veri animali, nove per la precisione: la testa di cammello, le corna di cervo, gli occhi di coniglio (o di gamberetto, secondo altri), le orecchie di mucca, il corpo di lucertola, il ventre di rana, le scaglie di carpa, le zampe o le palme di tigre, gli artigli di aquila. Nelle ossa oracolari, culla degli attuali ideogrammi, il simbolo era questo:
Nel 1979 Chen Chuan, professore dell’istituto di agricoltura dell’Anhui, categorizza finalmente le varie tipologie di tè in base o al colore delle foglie o dell’infuso. In una di queste categorie ricade il drago, ovvero in quella dei tè blu o oolong o wulong (drago nero) e una delle spiegazioni per cui la chiamarono così pare fosse per spaventare chiunque volesse addentrarsi nei giardini di tè, dato che molto spesso si potevano trovare serpenti neri velenosi.
Il Da Hong Pao ricade proprio in questa categoria e nonostante vi sia un richiamo all’acqua dato il colore della categoria, nella traduzione di questa tipologia si scopre tutt’altro.
Simbolicamente Da Hong Pao 大红袍 significa “grande rosso mantello”, è un tè del Fujian, nel Min Bei ovvero a nord del fiume Min e fa parte dei “tè di roccia” o YanCha in quanto le radici delle piante affondano nella nuda roccia per sopravvivere e trarne vita.
L’area è impervia e le rocce stesse sono sempre ricoperte da uno strato di umidità. Data la natura del luogo anticamente si usavano scimmie ammaestrate per la raccolta delle foglie in luoghi in cui un essere umano non poteva arrivare.
La natura stessa del significato del Da Hong Pao afferisce ad un topos di salvazione tanto caro alle leggende e alla aneddotica della cultura del tè ma fa meglio comprendere come il dualismo rosso-blu o traslandolo fuoco-acqua crei un dinamismo bilaterale fonte di energia e del qi sopra citato, energia sottile e specchio vitale dell’universo intero.
Essendo questo un tè di fuoco e di grande carattere, la marcia del TÈologo ErranTe si è fermata sul Monte Gemola (o Gemola Shan) nell’areale dei Colli Euganei.
In lontananza le cime a cono lasciano addurre una origine vulcanica di milioni di anni fa che ha portato una diversificazione dei suoli e del genius loci tanto complessa quanto affascinante.
Sul Monte Gemola in particolare ci troviamo di fronte ad un esempio di unità territoriale fortemente marcata da vulcaniti unici data la loro caratteristica di avere una natura acida che permette uno scambio più serrato tra pianta e suolo.
Guglielmo Stefani definisce così il Gemola:
Quasi piccola gemma tra i colli, a mezzodì dal Venda, lontana da Este tre miglia, ricca di vigneti e di ulivi, circondata da prati, è Gemmola.
in “Strenna dei colli euganei”, 1846
Piccola gemma dunque, probabilmente un rubino con taglio a goccia per far capire la sua natura rossa, magmatica, fluente e viscosa.
È altresì vero che il nome potrebbe derivare dal suffisso ge dal greco ovvero geo (terra) e da mola dal latino molaris, ovvero molare afferente a macine. Terra delle macine dunque e non si fatica a crederlo data la complessa rete idrica fatta di rii, calti, scoli e canali che servivano per il funzionamento dei mulini. I romani stessi utilizzavano la trachite per creare le complesse ramificazioni degli acquedotti e si narra che un produttore di vino abbia trovato durante lo scasso di un vigneto dei massi perfettamente tondeggianti di trachite riconducibili ad una macina utilizzata molto probabilmente per le olive.
Una sorgente di contatto che si trova sul monte Gemola è la Fonte del Pissarotto.
Il fluire sotterraneo delle acque raccolte dalla massa vulcanica fessurata del monte Gemola è interrotto dalla presenza di strati marnosi impermeabili che costringono la falda ad uscire a giorno. Questa acqua, debitamente portata a temperatura, è stata la matrice dell’infusione di Da Hong Pao che è stata creata proprio in quel luogo dal TÈologo ErranTe insieme a Lucio Gomiero, produttore di vino e grande appassionato di tè.
È stata fatta una infusione all’orientale (multipla) con l’utilizzo di una Gaiwan portando l’acqua a 98°C per più infusioni di 15-20 secondi l’una.
Confrontando le due bevande (Da hong Pao e Gemola 1999 di Vignalta) si possono riscontrare architetture gustative e trame olfattive con molti punti di contatto. Il dittongo fruttato-speziato ampio e orizzontale al naso prende derive diverse a seconda della bevanda e con tempi diversi: dall’estrema immediatezza e velocità nel tè alla grande attesa e riflessività nel vino che necessita di tempo per lasciarsi scoprire dopo un lungo riposo in bottiglia. L’architettura gustativa ha come minimo comune denominatore l’aspetto roccioso-magmatico-denso-calorico. Entrambi entrano con grande decisione e spessore per svilupparsi nella trama centrale con mascolina ritmicità tra le note acido-viscose-impastanti, consolidando la lunga persistenza grazie ad una saporosità scura e notturna che ne prolunga il sorso e chiude con piacevolezze balsamico-rinfrescanti degne di una macchia mediterranea.
L’assaggio ci lascia un fuoco dentro, pulsante, rivelatore, energico, avvolgente come un grande mantello rosso o come un flusso viscoso magmatico che avvolge e solidifica lasciando una traccia degna di un quadro post-impressionista.
In “Contadino che brucia sterpi” di Vincent Van Gogh dell’Ottobre 1883 ne ritroviamo la sintesi. Certamente una delle opere meno note, quasi monocromatica ma che pone l’accento sul concetto del fuoco governato dagli uomini, su un flusso che sta guardando verso l’alto ricco di torsioni, potenza, fuliggine, tizzoni ardenti e terrose trasformazioni.
Nero e ocra, rosso, bagliori che si perdono in una pianura campestre. Non è forse questa un’altra perfetta descrizione comune e vicina di due bevande culturalmente e storicamente così lontane?
I’m still working on that weed burner, whom I’ve caught better than before in a painted study as far as the tone is concerned, so that it conveys more of the vastness of the plain and the gathering dusk, and the small fire with the wisp of smoke is the only point of light. I kept going out to look at it in the evenings, and one muddy evening after the rain I found the little hut, which was very beautiful in its natural setting.
Lettera (tradotta) numero 398 da Vincent Van Gogh a Theo Van Gogh, lunedì 22 Ottobre 1883
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