Lievità

Piccola storia, passata e presente, del Lambrusco

Chi abita l’ambiente padano centrale ha di certo interagito col Lambrusco in alcuni o più momenti della propria vita. In genere lo si trova sulla tavola nel quotidiano quale classico “diluente” – complemento dei pasti, a cui si è storicamente adattato modificando e perfezionando le proprie caratteristiche. Chissà come doveva essere attorno all’anno mille, quando i monaci benedettini iniziarono per primi ad addomesticare questa uva di origine selvatica, maritandola ad altre piante in quanto rampicante. L’intento fu certamente di dare regolarità ad un prodotto che già allora doveva avere un certo appeal. 

Pier de Crescenzi verso il 1300 “fotografa” la realtà produttiva del tempo fatta di “lambrusche o lambruste, uve selvatiche delle quali alcune sono bianche, altre sono nere e molte fanno piccole granelle e piccoli grappoli, sopra arbori e pruni verdi…”. A fine 1500 fu invece Andrea Bacci a ricordare che “sulle colline di fronte a Parma, Reggio e Modena si coltivano lambrusche nere, bianche e rossicce che danno vini di gusto delizioso e piccante, odorosi e spumeggianti, quando si versano nei bicchieri…”. La sua presenza e diffusione (sia allevato che spontaneo) in Italia va consolidandosi nei secoli successivi, in special modo nell’areale modenese e reggiano dove, a fine 1800, l’ampelografo Maini classifica 27 varietà di Lambrusco a frutto bianco e 28 a frutto nero. Il flagello della fillossera decimò in seguito buona parte delle cultivar europee, fra cui anche le lambrusche, portando i viticoltori a selezionare le più produttive e resistenti agli agenti esterni. Questi criteri sono rimasti validi per decenni, anche dopo l’istituzione delle principali Doc, nel 1970. Attualmente le cultivar iscritte al Catalogo Nazionale delle Varietà sono 12.

Il bacino di produzione del Lambrusco comprende i territori pianeggianti e collinari delle province di Modena, Reggio Emilia e Parma e la parte meridionale (pianeggiante) della provincia di Mantova. Naturalmente la giacitura dei vigneti e le tecniche di coltivazione hanno forte influenza sulla qualità della materia prima. 

Le principali cultivar (varietà) che dominano la produzione sono:

Sorbara, tardivo, tendente all’acinellatura, amante dei terreni sciolti e sabbiosi ai margini del Secchia, a nord di Modena (Sorbara è anche il nome di una frazione di Bomporto MO), dotato di meno colore delle altre, ma di spiccate acidità e aromaticità e dal corpo leggero. Con esso si produce soprattutto il L. di Sorbara Doc anche spumantizzato col metodo classico.

Salamino, medio-tardivo, tipico della zona di Santa Croce presso Carpi (MO) ma ampiamente diffuso anche nel reggiano e mantovano, in prevalenza nelle aree pianeggianti. Il nome è dovuto alla forma cilindrica e serrata del grappolo, simile appunto ad un piccolo salame. Dà buoni e generosi risultati anche su terreni argillosi e di medio impasto. Da solo ed in assemblaggio prende parte a diverse Doc, fra cui L. Salamino di Santa Croce, Reggiano L., L. Mantovano.

Grasparossa, tardivo, cosiddetto per il caratteristico colore rosso vivo del raspo e dei pedicelli a maturazione. È caratteristico delle aree collinari, in primis a Castelvetro di Modena, in cui si esalta dati i suoli argillosi e calcarei, ma dà buoni risultati anche nel reggiano dove viene più spesso assemblato. Doc principali: L. Grasparossa di Castelvetro, Reggiano L., Colli di Scandiano e di Canossa L. Grasparossa.

Marani, medio, di origine incerta, da tempo diffuso specie nella pianura reggiana fra Fabbrico, Rolo, Campagnola e Novellara, ma anche nel mantovano. Data la sua vigoria sui terreni alluvionali è prediletto in forme di allevamento espanse, condotte meccanicamente, vendemmia compresa. Prende parte a diverse denominazioni fra cui la principale è Reggiano L. (anche se non viene citato) e origina interessantissime versioni rosate.

Maestri, tardivo, prende il nome da Villa Maestri, in comune di San Pancrazio, nel parmense, sua zona tipica di coltivazione. È particolarmente dotato di colore e di tannino, ragione per cui può essere tagliato con Ancellotta o altre varietà, o ancora lasciato con zuccheri residui al fine di ammansirne il carattere. È alla base della recente Doc Colli di Parma L. ma prende parte a diversi assemblaggi, specie nel reggiano e nel mantovano.

Viadanese e Grappello Ruberti sono varietà medio-tardive del mantovano, fino a pochi anni fa considerate sinonime, ora distinte in seguito ad accertamenti dei rispettivi DNA. Entrambe presentano buccia spessa e resistente per vini ricchi di acidità e tannino, anch’essi talvolta moderati dall’Ancellotta. A loro agio nei terreni alluvionali, possono generare vini in grado di evolvere a lungo, specie nelle rifermentazioni in bottiglia. Sono alla base della Doc L. Mantovano, con eventuale specifica della sottozona “Viadanese-Sabbionetano” o “Oltre Po’ Mantovano”. Sono altresì poco diffuse in Emilia.

Altre varietà degne di nota, un tempo coltivate promiscuamente e perciò considerate “da taglio”, stanno godendo di un momento favorevole di relativa notorietà, grazie a coraggiosi produttori che le riproducono, segnando vini dai caratteri distintivi:

Montericco (Cantina Puianello, Casali, Tenuta di Aljano RE)

Barghi (Cinque Campi, Cantina Puianello RE)

Oliva (in assemblaggio – Casalpriore, Vittorio Cottafavi RE)

di Fiorano o del Pellegrino o Lambruscone (Claudio Plessi MO)

Benetti (Podere il Saliceto MO)

Alle vinificazioni prendono spesso parte anche altre varietà quali Ancellotta, Malbo gentile, Fortana, Sgavetta, Fogarina ed altre ancora, da tempo complementari, utilizzate negli assemblaggi anche se, ampelograficamente parlando, non appartengono alla famiglia dei Lambrusco.

È importante sottolineare come il sistema delle Denominazioni di Origine Protetta sia solo “di indirizzo” per i produttori: esistono infatti versioni regolate dall’Indicazione Geografica Protetta o addirittura Vini da Tavola che si distinguono per la particolare espressività di vitigno o del territorio (variabili per altro non garantite dalle Doc che consentono interventi tecnici volti a “sfumarne” gli accenti).

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Matteo Pessina
L’amore per la natura ed il gusto del “bello” mi hanno fatto avvicinare al mondo del vino durante l’adolescenza. La necessità di approfondire è giunta con la maggiore età, per provare a placare una sete di sapere sempre crescente. Così facendo, il sacco delle esperienze è andato riempiendosi, ed allora – “per andar via leggero” – ho iniziato ad insegnare, condividendo così intenti, sensazioni, conoscenze ed emozioni con chi è mosso dalla stessa passione. Metro, Maurizio Cavalli, Alma e le principali guide dei vini nazionali mi hanno fatto “lievitare” (anche di peso!) verso una visione sempre più ampia, ma essenziale. Fabrizio Penna, Sandro Sangiorgi, Savio Bina, Alessandro Masnaghetti e, più di recente, Armando Castagno, sono stati i miei maestri, principali responsabili della maniacalità ed ispiratori di un approccio itinerante, di ricerca continua, finalizzata alla didattica e al donare gioia!

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