La Piana Rotaliana: panoramica.
Santo bevitore

Il caso del Teroldego

De Vescovi Ulzbach

Sarà necessario, per tutti noi, ripensare il mondo della viticoltura italiana come un assieme molto più omogeneo ed estensivo di quello che si è considerato finora.

Molte più eccellenze, insomma, guidate da una serie di tipologie consolidate che hanno contribuito a ‘lanciare’ il movimento, che poi, forse soltanto ora, quando l’accuratezza tecnica che si sta raggiungendo, unita alla spinta che una seconda, magari terza generazione di vignaioli sta fornendo, permette di disporre, lo dico con assoluta certezza, di un universo vitivinicolo vario e di una qualità media incredibile.

Lo confermano diversi assaggi recenti in Trentino.

Per chi non lo sapesse, accanto all’ormai riconosciuto e (giustamente) celebrato universo vitivinicolo altoatesino esiste, anzi, in verità lo precede, la cosiddetta Piana Rotaliana, immaginario ponte tra mondo tedesco e mondo latino, definita da Goethe “il giardino delle viti” e da Cesare Battisti, grande patriota trentino, “il giardino vitato più bello d’Europa”.

La Piana Rotaliana.
Di suo la Piana ha caratteristiche geomorfologiche straordinarie, configurandosi come una pianura alluvionale triangolare collocata tra il fiume Adige ed il torrente Noce, con al vertice l’imbocco della Val di Non. Compresa, anzi, sarebbe meglio dire schermata, da formazioni geologiche precedenti, come la celeberrima Formazione di Ora, derivata dalla Faglia di Trodena – quindi origine vulcanica – e ovviamente dalle Dolomiti. È una terra di grande tradizione vitivinicola, alla cui rinomanza contribuisce decisivamente il sottosuolo, che a parte la piana ha caratteristiche dolomitico/calcaree, ed è esposta nel pomeriggio alla propizia ora del Garda.

A questa particolare condizione microclimatica si deve la rinomanza del Teroldego – verosimilmente derivato da Tiroler Gold, oro del Tirolo – il territoriale trentino più famoso, prima DOC della Provincia Autonoma, fin dal 1971.

Il grappolo di Teroldego.
Croce e delizia della Provincia, si potrebbe dire che il Teroldego è un vitigno tuttora in fase di riscoperta, dato che, data la vigoria vegetativa, debitamente amplificata dalle vecchie coltivazioni a pergola trentina, fino a pochi anni fa originava un vino dai rendimenti mostruosi ma gustativamente non memorabile, tanto da essere spesso usato come uva da taglio. Ora, invece, anche grazie ad un coraggioso gruppo di giovani produttori che vanno sotto il nome di Teroldego Evolution (De Vescovi Ulzbach, De Vigili, Dorigati, Donati, Endrizzi, Foradori, Gaierhof, Martinelli e Zeni) si stanno varando una serie di norme interne, utili ad auto-regolamentare un disciplinare ritenuto – giustamente – troppo permissivo (tuttora inspiegabile un rendimento consentito di 170 quintali per ettaro, con oscillazione del 20%, se pensiamo che i grandi rossi italiani si attestano sugli 80). Quindi, massimali fissati a 100 quintali per la tipologia ‘base’, 60 per le Riserve, ma soprattutto, ancora più importante, un protocollo condiviso riguardante la coltivazione: quindi niente diserbi, niente concimazioni chimiche, irrigazione solo di supporto, oltre all’utilizzo di porta innesti ‘deboli’.
Gli esponenti di Teroldego Evolution.

Una specie di rivoluzione, insomma, tuttavia niente di straordinario se si pensa a quello che è stato fatto, in anni non più così recenti, nelle Langhe.

Detto questo, il movimento è la punta dell’iceberg virtuosa di un manipolo di piccoli produttori alla ricerca della giusta consacrazione, ma soprattutto dell’occasione per fare conoscere un territorio enormemente vocato, che solo le volubilità del mercato hanno relegato a sorta di ‘satellite’ di realtà più affermate.

Tra i tanti produttori e assaggi scelgo la storia di casa De Vescovi Ulzbach di Mezzocorona, non tanto perché papà Remo, con la sua memoria prodigiosa, mi ci ha trascinato dentro irreversibilmente, ma soprattutto perché credo che il figlio Giulio sia un viticultore, ma soprattutto un produttore, geniale.

Remo e la nipotina, durante la vendemmia.
Uso la parola non casualmente, dato che nella mattinata trascorsa insieme, nonostante le cospicue esperienze vitivinicole maturate in un ventennio in giro per il mondo – per non considerare il radicamento territoriale di una famiglia, appunto De Vescovi (Ulzbach è una particella nobiliare, che merita una trattazione a parte) arrivata a Mezzocorona nel 1708 – mi sono reso conto che Giulio, in tutto il suo dinamismo, si considera ancora in fase di apprendistato. Il ché è insieme rispetto per una tipologia ancora alla ricerca del suo picco espressivo, e insieme ambizione di superamento.
Giulio De Vescovi in vigna.

Giulio si dedica, peraltro, al Teroldego in maniera praticamente esclusiva, cosa che rappresenta la conferma di un’ossessione.

Discendente da un’illustre famiglia di coltivatori, Giulio De Vescovi si è imposto come uno dei produttori più ambiziosi, originali e autorevoli del Teroldego.
Produce una linea di etichette solida, che va dal Teroldego Rotaliano ‘base’, ad un rosato, Kretzer, che dimostra tutto il potenziale di un vitigno magnifico, al Vigilius, in memoria del capostipite, al bellissimo Kino Nero, dedicato ad un antenato illustre, Eusebio Francesco Chini, missionario tra i fondatori dello stato dell’Arizona, al cru Le Fron, sintesi delle ambizioni di casa.
La vecchia casa del ‘600, risalente al capostipite nobile Vigilio de Vescovi Ulzbach, dottore in teologia, economo e notaio al servizio di principi e potenti, che giunse, primo della famiglia, nel Campo Rotaliano.

Ma sono state soprattutto le prove di botte, in cantina, in cui si lavora con pulizia incredibile (e credetemi, non è una frase fatta) tra barrique di secondo passaggio, botti grandi, clayver, pressature soffici, macerazioni lunghe e controllate divinamente, che evidenziano un frutto croccante, dall’estratto spaventoso e dalla piacevolissima persistenza gustativa, alla ricerca dell’identità di un vitigno che, sarei pronto a giurarci, magari sotto forma di DOCG, sarà in un futuro vicino il battistrada di un propizio rilancio vitivinicolo trentino.   

La cantina seicentesca coi vari vasi vinari, la bassa temperatura, il grado costante di umidità e la luce filtrata.

Gabriele Bonci e il 2020

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Riccardo Corazza
Nasce a Bologna nel 1973. Lavorativamente si divide tra la consulenza aziendale e il giornalismo e la comunicazione enogastronomica, complice un lustro trascorso a Praga nella formazione in ambito HORECA per ristoranti e grossi brand internazionali. Ha collaborato con quotidiani, tra cui il Corriere della Sera, riviste, tra cui Forbes Italia e Sport Week, guide, tra cui la Guida ai Sapori e Piaceri de La Repubblica, I migliori 100 vini e vignaioli d’Italia, le Guide del Gambero Rosso e portali, tra cui Gardininotes.com. Ha lavorato in una radio rock e pubblicato 5 libri che con la ristorazione non c'entrano niente, in osservanza del vecchio adagio che è sempre opportuno confondere un po’ le acque.

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