Il 31 0ttobre 2024 saranno 40 anni senza Eduardo De Filippo
Quattro decenni senza un artista che ha incarnato pienamente il teatro, perché si deve spendere una vita per vivere e far vivere davvero il teatro e lui lo ha fatto con pochissime remore.
Anni che lo hanno sempre reclamato, a volte a gran voce, a volte invece più pacatamente e che dimostrano come questa figura sia entrata in una fase di concretizzazione storica vera e propria, dove alcune generazioni la interpretano come un punto solido e saldo della nostra cultura, mentre altre si stanno avvicinando ad essa oppure sono ancore scevre dalla connessione con la sua grandezza.
A parlarci, in un bel romanzo di formazione ambientato negli anni ’80, di Eduardo ci pensa in questi giorni Giuliano Pavone, con il suo PER DIVENTARE EDUARDO (edito dai tipi di LAURANA EDITORE).
Pavone attraverso la storia e la voce di Franco, un giovane tarantino, figlio di un operaio della terribile fabbrica che ha mietuto vittime di ogni età, racconta una vicenda di scoperta del sé, dell’altro e racconta l’Italia (o meglio alcune città) di un decennio che sembra tanto lontano quanto rimpianto.
Il sedicenne tarantino, bravo ragazzo, studioso, con la sua visione del mondo magari acerba ma forse molto più centrata di altri coetanei e con tanto rammarico per non essere al pari di altri (ricordiamo che viene dai Tamburi e non da un quartiere “per bene”), vince una sorta di premio studentesco che gli permette di poter collaborare con il quotidiano locale e lo può introdurre a quello che vorrebbe sia la sua professione futura: il giornalista.
Mentre si alambicca per capire cosa poter scrivere, trova il deus ex machina nel padre, che scopre aver avuto per lungo tempo una corrispondenza e un’amicizia con il grande Eduardo De Filippo.
Ancora sgomento dalla notizia e senza sapere da dove nasce questo legame paterno (che verrà poi svelato, romanticamente ed emozionalmente durante la narrazione), non fa in tempo a realizzare il tutto che si trova in viaggio per Roma, alla volta di casa De Filippo per cominciare il suo lavoro.
E da Taranto, città tagliente per il giovane, con le sue spigolature urbane e sociali, con i suoi meccanismi che sembrano essere innescati senza possibilità di disinnesco tra malavita, vita malata e pochi orizzonti, approda alla capitale, armato di una cartina che malapena riesce a gestire con le sue mani.
Roma diventa lentamente una città amata, che offre momenti di “vuoto” capaci di riempire qualunque tipo di pensiero emotivo, di riflessione esistenziale, una perdita tra le strade che riempie il cuore di una coltre densa e ricca di Bellezza ritrovata e amicizie impensate.
Ma naturalmente l’epifania è Eduardo De Filippo, splendidamente fotografato da Giuliano Pavone nella sua essenza più vera (dove di vero possiamo parlare nella narrativa) e nelle sue parole che confondono e affascinano il più delle volte il giovane reporter.
Tutto ciò che viene detto da De Filippo è il frutto di una ricerca accurata da parte dell’autore tra i documenti, gli scritti, le interviste e dichiarazioni rilasciate in vita dal drammaturgo, attore, regista napoletano, con una giusta dose di “fantasia”, e questo lavoro ingegnoso di mescolanza tra reale e immaginario rende ancora più dense le pagine del romanzo.
Lentamente, in modo satellitare, la vita di Franco si avvicina a quella di Eduardo, fino al momento del rientro del ragazzo a Taranto. Un rientro che lascia indietro molto, ma che porta con sé uno sguardo verso il futuro che se sembra da una parte più incerto ha il gusto del “possibile”.
Non mancano le separazioni affettive, la morte, le responsabilità a dare del filo da torcere al ragazzo, che vola di impeto a Milano (“il paradiso per noi terroni”), una città diversa sotto molti punti di vista rispetto alle “sue” ma che gli offre finalmente un cambio di rotta vero e proprio, capace di stupirlo e scuoterlo fino alle fondamenta, rendendolo così ancora più solido.
PER DIVENTARE EDUARDO è una lettura molto suggestiva e “visiva” se vogliamo, che ha quasi un doppio carattere, biografico e narrativo, che rende appassionante – anche grazie allo stile di Pavone – il viaggio e le vicende di Franco, lasciando nel lettore un sorriso emozionato e il desiderio di tornare sui passi di un grande artista immortale.
INTERVISTA A GIULIANO PAVONE
Abbiamo raggiunto Giuliano Pavone per un’intervista sul libro.
Giuliano Pavone (Taranto, 1970), è autore di una ventina di libri fra fiction, saggistica e varia.
Tre i romanzi prima di questo: L’eroe dei due mari (2010, vincitore di tre riconoscimenti
nell’ambito della letteratura sportiva) e 13 sotto il lenzuolo (2012), entrambi pubblicati da Marsilio, e Gli scorpioni (Laurana, 2022).
Come nasce la sua passione per Eduardo De Filippo?
Da un fatto antico e uno recente. Quello antico è la fascinazione per le opere e per i modi di Eduardo, quando lui era vivo e io poco più di un bambino. Quello recente, alcuni anni fa, la scoperta di quanto incredibile sia stata la sua vita, sul fronte familiare (figlio illegittimo di Scarpetta, i rapporti con il fratello e la sorella, grandi artisti anche loro…), sentimentale (tre mogli) e professionale (gli incontri con molti grandi del Novecento, da Pirandello a Carmelo Bene, da Malaparte a Dario Fo…).
Qual è la cosa che più l’ha colpita della vita e della storia di Eduardo?
La sua totale devozione al teatro, una sorta di divinità laica a cui ha dedicato tutto se stesso. Un atteggiamento ben sintetizzato dalla frase con cui concluse la sua ultima apparizione pubblica, al teatro greco di Taormina, pochi mesi prima di morire: “È stata tutta una vita di sacrifici… e di gelo! Così si fa il teatro, così ho fatto”:
Taranto è una protagonista vivente del romanzo, così come le altre due città sono quasi co protagoniste. Può parlarci del suo legame con queste?
Taranto è la città in cui sono nato e che ricorre in quello che scrivo. È una città refrattaria alla normalità, estrema e unica nel bene e nel male, che suscita sentimenti contrastanti. Molto interessante per scrittori e cineasti. Milano è la città in cui vivo, che pretende molto ma sa restituire altrettanto. E’ la città delle opportunità, non solo per me ma anche per Franco, il protagonista del mio romanzo, e per lo stesso Eduardo, che la considerava la piazza decisiva per il successo delle sue opere. La Roma del 1982, agli occhi di Franco, un giovane nato in provincia, è il mondo: è la versione live di tutto ciò che fino a quel momento ha visto solo in tv, sui libri di scuola o in cartolina. La parlata romana, in un periodo come quello in cui la televisione era molto romacentrica, è per Franco quasi una patente di italianità. Infine, nel romanzo c’è anche molta Napoli.
Franco è un ragazzo che può essere definito “comune”, ma in realtà si percepisce un tocco più profondo, quasi “biografico”, è un personaggio di pura fantasia oppure qualcosa della sua vita è entrato in lui?
Credo che qualcosa di autobiografico entri sempre in ciò che si scrive, e alcuni episodi raccontati nel mio romanzo si ispirano a fatti reali accaduti a me o ad altri. Ma Franco non è una proiezione di me stesso. Al contrario, con lui ho cercato di raccontare un punto di vista lontano dal mio. Lui, figlio di operaio siderurgico del quartiere Tamburi (il più vicino alla fabbrica), per andare al liceo classico della Taranto bene doveva prendere un autobus e attraversare mezza città. Io, invece, di famiglia borghese, quello stesso liceo lo raggiungevo a piedi in cinque minuti. In sostanza, Franco poteva essere un mio compagno di classe, ma di quella parte della classe che spesso rimaneva in ombra e che a volte non veniva invitata alle feste.
In un momento così difficile per i giovani, spesso in balia di incertezze e poca “cultura”, quanto può essere utile – diciamo così – confrontarsi con la storia di Franco, gli anni ’80 e la vita di Eduardo De Filippo?
La lezione di Eduardo, che Franco impara e mette in pratica, è che nella vita non ci sono scorciatoie: ci vogliono umiltà e spirito di sacrificio. Bisogna avere coerenza per perseguire sempre gli obiettivi che si ritengono importanti, ma anche la lucidità di capire che non c’è un solo modo per raggiungerli: per arrivare dove si vuole, si possono percorrere anche strade impensate.
Credo, poi, che un altro aspetto di Eduardo che ci farebbe molto comodo sia la sua capacità di leggere la complessità del mondo, con sguardo severo e non giudicante. Oggi, invece, si tende spesso a banalizzare le questioni e a polarizzare le opinioni.
De Filippo parla molto del rapporto giovani e anziani, cosa può dirci a riguardo?
Essersi occupato di rapporti intergenerazionali (per esempio in “Uno coi capelli bianchi” o in “Sabato, domenica e lunedì”) è uno dei tanti elementi di modernità di Eduardo. Lui da giovane ascoltava i vecchi (e interpretava ruoli da vecchio “per portarsi avanti”) e poi, da anziano, si è dedicato molto ai giovani, ad esempio insegnando teatro all’università o occupandosi delle carceri minorili in qualità di senatore a vita. Il passaggio di testimone fra anziani e giovani era alla base del suo concetto evolutivo della tradizione, ed era il motivo per cui definiva la morte un punto di partenza anziché un punto di arrivo.
Nel futuro si occuperà della figura di Eduardo De Filippo o resterà solo una sua passione?
Non escludo di dedicarmi ancora a Eduardo professionalmente. Sto riflettendo su dei modi nuovi per raccontare la sua vita.
Se dovesse invitare alla lettura di questo romanzo, cosa ci direbbe?
È un romanzo di formazione che racconta le prove che ciascuno di noi deve affrontare per entrare nella vita adulta: i rapporti familiari, la scoperta di sé, l’amore, il sesso, i lutti, le scelte lavorative, la comprensione di ciò che conta davvero… E poi tutti abbiamo avuto almeno un mentore, nella vita, anche se è stato un privilegio di pochi l’aver avuto come mentore un gigante della cultura, ancora oggi attualissimo, come Eduardo.
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