Omen – L’origine del presagio: né da frati né da monache non t’aspettar mai niente (di buono)
Lo dico subito: TFO (The First Omen) è un bel film.
Bello perché intelligente, non perché del tutto riuscito.
Se volessimo guardarlo con occhio sintetico, e dunque fingendo che non sia il sesto capitolo, nonché prequel, della saga di Damien iniziata nel 1976, troveremmo tante di quelle incongruenze e tanti di quei difetti che metà basterebbero.
Uno su tutti: il silenzio mediatico e legale di stampa e polizia di fronte agli eventi (morti splatter, mica semplici incidenti) che gravitano attorno all’orfanotrofio nel quale opera suor Margaret (l’ottima Nell Tiger Gree).
Sono buchi di trama e sviluppi illogici talmente evidenti da risultare quasi offensivi, merito anche di una sceneggiatura che non fa nulla per uscire dal cliché.
Però ARKASHA STEVENSON, qui alla prima regia, prende di petto un universo a sé stante, e che non necessitava di un ulteriore film, e lo omaggia con un film che prima di tutto è un compendio del cinema anni ’70 che del demonio aveva fatto una specie di leitmotiv dopo il successo de L’Esorcista (di cui abbiamo anche parlato QUI).
Innanzitutto la Stevenson decide di ambientare la vicenda in quell’epoca, ma questa è solo la facciata perché la bellezze del film consiste nel non essere un horror mainstream propriamente detto.
Avete presente tutti i prodotti della Blumhouse? Ecco, qui siamo su un altro campo.
Due ore di film che già dall’incipit suggeriscono con la messa in scena che non si punterà tanto (solo) sui più risaputi jumpscares, che, va detto, sono centellinati, quanto sul creare un clima generale di indeterminatezza e inquietudine che esce dritto da quel tipo di cinema di cui lui stesso è costola.
Sono piccoli elementi ma numerosi, capaci, una volta unitisi, di creare un mosaico generale da cui non si esce indenni: zoom chirurgici sui personaggi; fotografia che col prosieguo del film diventa via via più surreale; limitazione dei campi lunghi e lunghissimi a semplici inquadrature contestuali; gran lavoro sul sonoro; sequenze oniriche; anticipazione dell’orrore sui personaggi e poi conferma sullo spettatore (la mano demoniaca durante il parto; il parto finale).
Il cast coadiuva la riuscita del progetto senza scadere (troppo) nel macchiettistico e, soprattutto, il film sceglie la strada dell’indagine e non dell’horror puro, un po’ come il primo film.
E un trucco vecchio come il cinema ma qui è utilizzato con perizia: suggerire l’orrore a parole e lasciare che siano le immagini (nemmeno per intero) a mostrarlo.
Certo, ci sono “spiegoni” qua e là che inseriscono la vicenda con precisione nell’universo cinematografico della saga, e il finale paga dazio di un certo clima combattivo-femminista imperante, però sono difetti che non rovinano una resa complessiva riuscita e di buona inquietudine (la visione di suor Anjelica che sbuca dal buio, ustionata e rapace, non si dimentica).
Unico punto che mi ha lasciato perplesso: la Stevenson riuscirà a confermare il proprio talento avendo un debutto inserito in un universo filmico autonomo?
Spero di sì. La premesse sono assai valide.
...segui Gianpietro.
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