Primo Piano

Megalopolis

Il (mega) fallimento della morale

Che gli vuoi dire a Francis Ford Coppola?
85 anni e ancora in pista con un film che fa sembrare certo cinema sperimentale d’oggi uno scherzo tra amici.
Per una volta la distribuzione italiana azzecca un titolo e presenta il film come una “favola”. Dettaglio non banale.
Perché Coppola è schifato dal mondo che lo circonda e ci tiene a fartelo sapere. Ci tiene così tanto da mettere una scena una favola nella quale ogni fotogramma è intriso di morale, di un insegnamento che tu, spettatore che tanto hai osannato Il Padrino (1972), capendo in parte la grandezza di questo autore, sei costretto a vedere a caratteri cubitali.
Lo status di autore (per quanto possa significare tutto e niente) permette al buon Francis di realizzare un film talmente estremo che a confronto Un’altra giovinezza (2007) pare una pellicola da scuola primaria.
Coppola è schifato e lo è talmente tanto che con Megalopolis ti prende a sberle dal primo all’ultimo minuto. E lo fa in due modi: dirige un film stilisticamente folle che ti obbliga a impegnarti a ogni sequenza per capire dove si sta andando a parare; ti vomita in faccia ogni tre per due l’insegnamento che devi trarre da quello che stai vedendo.
Fa specie vedere un film del genere sapendo che a dirigerlo potrebbe essere stato tuo nonno, o il tuo bisnonno. Fa specie perché questo film ha una vitalità irresistibile che solitamente un esordiente potrebbe trasmettere a una pellicola.
Coppola è sempre stato un outsider, uno che è sceso a patti con certo cinema mainstream, che poi lo ha reso famoso, per pagarsi il tipo di film che interessava a lui. Per Coppola il cinema (potremmo azzardare: il cinema vero) è sperimentazione e provocazione, non conferma, anche se di Oscar ne ha vinti cinque ufficiali e uno onorario. Due sono i casi in cui queste caratteristiche hanno ripagato al botteghino: Apocalypse Now (1979); Dracula (1992). Per il resto basta farsi una carrellata della sua filmografia per comprendere come, quando non obbligato da ragioni commerciali, Coppola non abbia trovato la quadra coi gusti del pubblico quando ha diretto quello che voleva come voleva.
E in Megalopolis, vuoi anche per la funzione testamentaria del progetto, e le tempistiche di realizzazione, Coppola non si limita in niente e dice tutto quello che ha da dire. E di cose da dire ne ha molte.
Pur scivolando in soluzioni spesso ai limiti del ridicolo (vedi il finale col neonato), Megalopolis è un film gigantesco, un atto d’accusa contro tutto e tutti che da favola trascende via via nella satira più spietata. Anche di se stesso come opera d’arte.
Si ride parecchio in questo film. A volte volontariamente, a volte no. Ma le volte in cui si sorride perché di fronte a sequenze che paiono maldestre, in realtà sorge il dubbio che Coppola stia prendendo per il culo te e lo stia facendo con l’intento chiaro e tondo di farti sentire un cretino perché ridi di cose che lui vuole farti credere riuscite male ma che in realtà sono realizzate così apposta.
Basta l’impianto narrativo per mettere un punto alla visione: siamo di fronte a un’allegoria della società moderna filtrata attraverso la classicità. I latini, però, non sono utilizzati partendo da un dato storico o storiografico, ma letterario. A Coppola non frega un cazzo della congruenza storica; a Coppola importa l’insegnamento (morale) che i latini avevano da dare sui loro tempi e che hanno impresso nei testi letterari giunti fino a noi.
Con questa chiave di lettura ogni sequenza si carica di una critica dai tratti predicatori che ti obbliga, da spettatore, a stare alle regole del gioco o ad andartene fuori dalla sala. Quando metti 120 milioni di tasca tua non è così scontato. Invece Coppola se ne sbatte di quello che ti aspetti tu, spettatore sintetico. Lui vuole, anzi: ti obbliga a diventare spettatore analitico. Nel farlo non ti dà mai una sequenza uguale a se stessa: tanto è risolvere un dialogo con dei long take di stampo teatrale quanto spararti un montaggio ipercinetico ebbro di sovraimpressioni, iris, voci fuori campo, split screen senza una ragione valida. All’apparenza.
Perché sotto l’aspetto superficiale, che già di per sé veicola un messaggio, il buon Francis ti sta dicendo che questo mondo fa schifo, che chi lo controlla è una merda e che l’unica soluzione possibile è un’utopia distopica che crei un mondo nuovo dove a vincere è l’innocenza, rinascendo dalle ceneri di un mondo vecchio talmente squallido che manco ha senso mostrartelo in maniera lucida, perché di per sé la New Rome non è lucida.

Qui si viaggia sui binari della follia e della disumanizzazione, dunque quale strumento migliore per fartelo capire se non realizzando un film folle?

Pare una paraculata ma Coppola non è un paraculo. Si mette in gioco, ti mostra che dal passato si può ancora imparare qualcosa, ti suggerisce che la congiura di Catilina di Sallustio non è solo una parte di letteratura latina che annoia lo studente liceale; è cosa modernissima e spietata da cui non si esce indenni.
E poiché tu sei uno spettatore sintetico che deve diventare analitico, Coppola tira fuori tutto l’armamentario del cinema che gli è proprio: cita una quantità di autori e soluzioni visive che rasentano l’aneddotica e lo fa pigliandosi anche per il culo, con almeno una sequenza (il dialogo tra Cesar e Cicero, con due immensi Adam Driver e Giancarlo Esposito) che pare una caricatura di un qualsiasi dialogo preso da Il Padrino. Ci vuole coraggio a prendersi in giro e a farlo con cognizione di causa.
Così facendo il concetto del “tempo” assume contorni inaspettati, quasi Coppola volesse dirci che lui, come regista, giunto alla fine del suo tempo, almeno nel cinema, e al di là delle dichiarazioni di facciata su un prossimo film che vorrebbe realizzare, di tempo non ne ha più e si è rotto le palle di parlare a bassa voce; adesso Coppola vuole urlare ciò che ha da dire e lo fa decostruendo un senso comune di “narrazione standard” che lui stesso ha contribuito a creare.
Perché lo fa?
Perché il tempo è un cerchio, le tragedie passate tornano ciclicamente anche nel presente, anche se tu che guardi non te ne rendi conto, quindi urge fondere passato e presente per mostrare lo schifo che ci sta sotto.
Megalopolis diventa dunque la città mentale di Coppola, una città che si fa eponima del cinema tutto e dell’apporto morale che il gesto artistico dovrebbe infondere alle nostre vite.
Che il film sia un flop stroncato dalla critica dimostra solo che, alla fine, Coppola ha ragione.
Ci vorranno almeno dieci anni prima che questo grande e imperfetto film venga visto per ciò che è: l’ultimo urlo di una autore che non ha mai smesso di gridare, anche se la sua invettiva è divenuta un canto del cigno.

...segui Gianpietro.

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Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

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