Delicatessen

Mate de Coca

Negli anni ottanta mi concedetti un periodo, per così dire, sabbatico e presi un volo per Salvador de Bahia in Brasile.
Dopo qualche mese di permanenza, nonostante mi fossi ambientato al meglio, mi riprese la voglia di viaggiare e partii per la Bolivia.Passai per Rio de Janeiro, per San Paolo, quindi attraversai il Mato Grosso do Sul e il Pantanal, paradisi di biodiversità.
Contemplai paesaggi incontaminati, dolci e selvaggi, in un succedersi di foreste e di paludi.  Arrivai al confine boliviano con appiccicata una fastidiosa febbriciattola che attribuii alle numerose punture d’insetto. Alla frontiera, su un autobus, al mio fianco vi era una giovane india andina che rientrava in patria. Saputo che ero italiano si presentò – Roxana – e mi disse, in portoghese, che da sempre avrebbe voluto visitare l’Italia. Arrivammo a Puerto Quijarro, cittadina boliviana di frontiera, capolinea ferroviario. Ero diretto a La Paz. Il primo treno sarebbe partito il giorno seguente e fu Roxana a indicarmi dove avrei potuto pernottare, il suo stesso albergo, che raggiungemmo insieme. Roxana si era accorta che non stavo benissimo così, una volta arrivati, mi procurò una pomata da spalmare sulle parti infiammate.

Mi invitò poi al bar, dove ordinò per entrambi un mate, una sorta di infuso o di decotto.

Il mate viene preparato con diverse erbe e in Bolivia anche con foglie di coca. Ciò perché, soprattutto se si affrontano le altitudini andine, ha proprietà cardiotoniche. Localmente si sostiene, inoltre, che le foglie di coca siano stimolanti, aiutino ad aumentare energia e resistenza e migliorino la digestione. Le foglie sono utilizzate dalla popolazione nel mate, oppure vengono masticate.
La bevanda che mi propose Roxana, preparata con le foglie di coca, era amara, erbacea e poteva ricordare il tè verde. Di fatto pomata e mate mi aiutarono a riprendermi e il giorno dopo ero pronto per ripartire. Avrei preso lo stesso treno di Roxana che divenne la mia guida, otre che interprete. In attesa di partire, mi portò in un mercatino con tante bancarelle disposte a quadrato coperte da tende così ravvicinate da formare un unico tetto. I venditori di verdura e di frutta ci offrivano la loro mercanzia per pochi pesos. Ci sedemmo a un tavolo dove ci servirono, senza che dovessimo ordinarla, una zuppa di riso. Roxana mi spiegò che stava tornando a Oruro, la sua città, a sud di La Paz, e che per raggiugere le nostre destinazioni, saremmo dovuti passare entrambi per Cochabamba, la prima città andina che avremmo incontrato; poi le nostre strade si sarebbero separate. Capelli corvini, occhi scuri, poteva avere trent’anni: era molto carina e aveva un sorriso sincero. Cominciò quindi il nostro viaggio in treno per Santa Cruz de La Sierra dove sbarcammo il giorno successivo. Per quanto ci conoscessimo così da poco, Roxana a suo modo mi comunicava affetto che io ricambiavo. Mi portò a scoprire il centro storico della città tra case bianche e antichi porticati molti dei quali di legno.
Mi parlò della Bolivia, la sua storia, la sua gente. Da lì il viaggio proseguì in autobus arrampicandosi sino a Cochabamba a oltre 2500 metri di altitudine.

Quando arrivammo sentii il respiro delle Ande.

Mi disse che il clima andino, da lì in avanti sarebbe stato sempre più rigido e mi consigliò di acquistare un indumento di lana. Mi accompagnò pertanto in un grande mercato di artigianato locale. Qui la cultura andina cardava le lane di alpaca per intessere poncho esposti nelle bancarelle con maglioni e capelli. Cercai un maglione, ma lei mi consigliò un poncho e mi aiutò a sceglierlo. La vedevo muoversi con disinvoltura tra la sua gente, mentre io non passavo inosservato per via dei capelli lunghi, della barba, della corporatura. Vedevo la gente guardarmi con espressione muta, non ostile, ma neppure amica.
A Cochabamba le nostre strade si divisero. Nel salutarci mi propose di raggiungerla a Oruro. Non glielo promisi. Su un autobus arrancante cominciai a salire le Ande verso La Paz.
Sugli altopiani si incontravano rari pastori solitari con i loro piccoli greggi di lama e di alpaca. La Paz mi apparve come una città dall’architettura disordinata. Nel percorrerla visitai il mercato coperto dove i contadini portavano le proprie mercanzie. È la capitale più alta del mondo a oltre 3.600 metri s.l.m., altitudine che avvertivo quando percorrevo di buon passo strade in forte in salita. Rimasi in città circa una settimana, valutando se spingermi in Perù. Di fatto decisi di raggiungere Roxana a Oruro: la strada che mi portò da lei scorreva sotto nuvole basse e il soffio del vento era l’unico suono che avvertii in quelle valli assopite.

Quando la vidi venirmi incontro fu come ritrovare una persona conosciuta da sempre dopo un lungo periodo di separazione.

La sua casa era a un piano e formava una sorta di quadrilatero con all’interno un cortiletto. Soffitti bassi, era ordinata e accogliente. Come una signora inglese offre un tè al suo ospite, così lei mi propose un mate de coca. Visto che ero interessato alla preparazione mi spiegò che il mate si può realizzare in più modi. Come per il tè, le foglie si possono lasciare in infusione in acqua molto calda per circa 10 minuti, oppure decuocere per 5-10 minuti se si vuole ottenere una bevanda più intensa. In genere si calcolano 6-8 foglie per tazza senza frantumarle. È inoltre abituale raccogliere le foglie direttamente nella tazza e coprirle di acqua molto calda. In quei giorni mi portò a conoscere la città di origine seicentesca: la musica dei flauti dell’altopiano percorreva a tratti le strade di terra battuta. Roxana, quando le cucinavo un piatto italiano, era entusiasta e voleva scoprire la ricetta, anche se le materie prime erano spesso improbabili come gli spaghetti di grano tenero. In quei giorni ci affiatammo, senza mai porci domande troppo personali. Però mi chiese di parlarle dell’Italia. Per quanto mi piacesse rimanere con Roxana, dopo qualche giorno sentii che era il momento di ripartire. A Oruro vi era una stazione ferroviaria e un capolinea di autobus.
Il giorno prima della partenza andai alla stazione per verificare gli orari. Entrato trovai una lavagna con scritto che il treno, causa pioggia, non sarebbe arrivato. Tra il basito e il divertito, mi infilai in un caffè, corrispondente a un’osteria nostrana, ma molto local. A un tavolo, sorseggiando una birra, accesi una sigaretta. Mentre fumavo avvertii una voce roca sovrastare le altre. Inizialmente la ignorai per poi successivamente accorgermi che un omaccione sulla cinquantina mi aveva preso di mira.  Era seduto a un tavolo con davanti una bottiglia di birra e fissandomi mi chiedeva e richiedeva, con piglio provocatorio, se fossi francés? alemá?, inglés? riscontrando, tra gli avventori, qualche sorriso divertito se non consenziente. Ripresi a ignorarlo, finii la mia sigaretta, la birra, poi mi diressi verso l’uscita. Quando gli passai a fianco mi afferrò un polso e in tono imperativo mi chiese di bere con lui. Il suo grosso naso era a portata del mio ginocchio e avrei potuto chiudere l’incontro forzato in pochi secondi. Ma non eravamo soli e gli avventori erano amici suoi più che miei. Sentii allora la mia voce, quasi non fossi io ad articolare le parole, scandire in portoghese “Eu sou brazileiro”.
Al che il tipo mi liberò il polso ed esclamò “hermano” ossia fratello. Così potei andarmene, ma fatti pochi passi fuori dal locale sentii intimarmi “manos arriba!”. Erano due poliziotti. D’istinto, in un nano secondo valutai se avessi vie d’uscita, ma non potei far altro che obbedire. E con le mani alzate provai un forte disagio nel sentire innanzitutto la mia vulnerabilità e che stavo imboccando un tunnel per nulla piacevole senza sapere quanto potesse essere lungo.
Mentre un poliziotto mi teneva sotto tiro l’altro mi chiese il passaporto, poi mi portarono in auto nel loro ufficio. Nel tragitto pensai che si fossero accorti di aver sbagliato persona. Ciò perché se si intima di alzare le mani a un presunto criminale in quanto pericoloso, subito dopo averlo riconosciuto come tale si ammanetta. Trattamento, questo, che non mi avevano riservato.
Per cui mi convinsi che non avevo nulla da temere. Per contro ero sicuro che mi avrebbero posto domande in merito alla mia presenza a Oruro. E io non avevo nessuna intenzione di mettere Roxana in mezzo. Arrivati nel posto di polizia dopo aver confrontato, passaporto alla mano, un tabulato e dopo una telefonata fatta di tante attese, un poliziotto mi chiese perché fossi in città e dove pernottassi. Giocando sull’ambiguità di capire poco la lingua e di rispondere in portoghese, oltre a dichiarare che ero un turista, risposi genericamente che pernottavo in una stanza vicino alla stazione ferroviaria indicando con la mano una direzione approssimativa. E tanto bastò. Non avevano più interesse per me. Mi restituirono il passaporto e me ne andai. Quando fui certo di non essere seguito raggiunsi Roxana. Le raccontai tutto e lei mi spiegò che il bruto cui avevo detto di essere brasiliano era un uomo pericoloso e influente; da lì a poco avrebbe saputo quale fosse la mia nazionalità e si sarebbe sentito deriso. Inoltre i poliziotti, con un normale controllo, si sarebbero accorti che non ero in nessuna stanza vicino alla stazione. “Questa notte” mi disse Roxana “qui sarai al sicuro”. Mi spiegò che ogni mattina un autobus partiva per Cochabamba, ma la fermata era proprio davanti all’ufficio di polizia e un’occhiata ai passeggeri veniva sempre data. Mi avrebbe pertanto accompagnato in auto alla fermata del paese successivo. Mi preparò un bagno caldo e rilassante, poi mi massaggiò con un olio balsamico. Stavo benissimo e lei seppe farmi stare ancora meglio con un mate di coca addolcito dal miele, cui seguì un infinito abbraccio.

La mattina successiva, arrivati a destinazione, ci salutammo stringendoci forte, sapendo che difficilmente ci saremmo rivisti. 

Ricordo i suoi occhi affettuosi e al tempo stesso malinconici e il suo “adios” appena sussurrato tra una carezza e un bacio. Dopo un paio di settimane ero con un’amica alla Cantina da Lua, un locale storico di Bahia. Quando mi chiese se avessi nostalgia della Bolivia, dopo un lungo sorso di caipirinha le risposi che no. Non avevo nostalgia della Bolivia. Però mi mancava Roxana. Ma non mi dilungai a spiegarglielo.
...segui Fabiano.
Fabiano Guatteri
Di poche parole, scrittore e giornalista, direttore editoriale della testata Good-Mood (www.good-mood.it), collaboro con la Guida I Ristoranti d’Italia de l’Espresso. Ho insegnato Gastronomia Sperimentale presso il Dipartimento di Chimica Farmaceutica dell’Università di Pavia. C’è dell’altro, ma basta così.

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