Un paio di giorni fa ho letto un articolo sull’ultimo Blockbuster nel mondo, a Bend, in Oregon, USA.
Mentre scorrevo il pezzo ho ripensato a quando avevo 12 anni e all’estate che trascorsi nella videoteca di via Zara, il Videomania.
Dove abito, a Lonigo, c’erano due negozi di videonoleggio. Uno era a pochi metri dalla piazza cittadina, e non lo frequentavo; l’altro era fuori dal centro ed era diventato LA MIA SECONDA CASA.
A seguito di una serie di vicende che mi avevano interessato in quel periodo, fu un’estate in cui ebbi molta libertà di movimento. Per arrivare al videonoleggio prendevo la bici e attraversavo la città. Impiegavo dieci minuti, un quarto d’ora al massimo per raggiungerlo. Frequentavo il videonoleggio perché il cinema era la proiezione che avevo del mondo, almeno per i film che visionavo all’epoca. Inoltre, la videoteca era un luogo in cui mi sentivo al sicuro.
Si estendeva lungo un’unica stanza di 50 metri circa, la quale era divisa in tre corsie ricolme di custodie vuote. Per noleggiare un film occorreva prendere un portachiavi indicante un numero identificativo. Lo si portava alla cassa e si otteneva il nastro. Alle pareti erano affissi poster sgualciti. Delle luci verdi e gialle inframmezzavano i manifesti. Amavo l’odore di carta e plastica che aleggiavano nell’aria, così come la polvere ai bordi delle custodie e la moquette sporca sotto ai piedi. Era tutto imperfetto e rattoppato.
Per me noleggiare un film non era uno svago, ma una scuola di vita. Le immagini presentavano un universo privo di sfumature, con regole chiare e precise. Guardavo i classici anni ’80 con Stallone e Schwarzenegger. Divisioni nette tra buoni e cattivi, coraggio sovrumano, sprezzo del pericolo, dedizione a un ideale. Tutto concorreva a nutrire le giovani illusioni di una persona in procinto d’entrare nel mondo. A queste pellicole andava aggiungendosi UNA SERIE STERMINATA DI FILM DELL’ORRORE che divoravo avidamente per mettermi alla prova. Mi vantavo di ciò che vedevo coi compagni di classe e con gli adulti che frequentavo. Alcuni rimanevano sconvolti, altri indifferenti. Ciò che contava era come quel micro-universo rappresentasse un’oasi in cui potermi rifugiare.
C’era una commessa, si chiamava Moira. Aveva iniziato a lavorare al videonoleggio a maggio di quell’anno, con un contratto di qualche mese. Per lei era un lavoro passeggero in vista di un impiego stabile. Aveva un diploma da ragioniera. Aspirava a un posto da segretaria. Non avendo risposte dalle agenzie interinali, aveva accettato quell’impiego senza troppi dubbi. Da anni si accontentava di fare qualcosa di diverso rispetto a ciò che desiderava. L’impiego le era stato proposto da un amico di suo fratello, il proprietario del negozio. La precedente commessa se n’era andata a marzo, di punto in bianco. Il proprietario aveva gestito l’esercizio per le settimane successive, ma gli era risultato troppo impegnativo. Rappresentava un investimento di tempo che mal si coniugava con la sua passione per lo speedway. Così aveva trovato in Moira la perfetta sostituta. Ne conosceva la famiglia, conosceva lei personalmente e sapeva che l’amicizia col fratello avrebbe limitato il rischio di problemi. Moira era stata molto diretta in merito: finché non fosse giunta un’offerta migliore sarebbe rimasta in videoteca, ma appena fosse arrivata una chiamata avrebbe mollato. Al proprietario era andato bene. O così mi disse lei, qualche tempo dopo.
Era snella e dalla pelle olivastra. Alta poco più di un metro e sessanta, portava gli occhiali e raccoglieva i capelli color nero corvino in code dietro alla testa. Prima di quell’estate frequentavo il videonoleggio saltuariamente, con mio padre, e non avevo fatto caso alle precedenti commesse, né al proprietario. Spesso chiedevo a mio padre di noleggiarmi i film, quindi nutrivo la mia passione in maniera solitaria e asociale. Terminata la scuola, però, il videonoleggio era diventato l’unico luogo sicuro in cui potessi rifugiarmi. Presi ad andarci ogni pomeriggio. Dapprincipio non rivolsi la parola a Moira. Mi limitavo a entrare, guardare le custodie dei film e uscire. Dopo una settimana noleggiai Predator.
Quando Moira mi diede la videocassetta chiese se mi piaceva il cinema. Le domandai da cosa lo aveva capito. Disse che ero l’unico che quando prendeva una custodia leggeva da cima a fondo la trama, compresi i crediti della pellicola. Aveva notato che li seguivo col dito. Arrossii per l’imbarazzo e annuii. Moira mi augurò buon divertimento. Uscii con un sorriso a mezza bocca. Il caldo era cocente e il sole del tardo pomeriggio aveva reso l’aria irrespirabile. Quando tornai a casa guardai il film ma non ne vidi un solo fotogramma. Pensavo all’augurio di Moira e a quando l’avrei rivista l’indomani.
Il giorno successivo tornai e restituii il VHS. Moira mi chiese cosa ne pensassi. Le dissi che lo avevo amato parecchio e che un giorno avrei avuto un fisico come quello di Schwarzenegger. Lei guardò il mio corpo scheletrico e disse che ci sarebbe stato da lavorare. Ma aggiunse che nulla era impossibile. La ringraziai. Fu il nostro primo dialogo informale.
I giorni si susseguirono rapidamente, così come le nostre conversazioni. Lei mi raccontò della sua famiglia e dei suoi fratelli. Io dei miei genitori e della scuola. Non mi domandò una sola volta perché non stessi a casa. Anni dopo gliene fui grato. Penso avesse capito che non avevo molti altri posti in cui andare, quindi mi ascoltava e condivideva qualche idea. Io fagocitavo film in quantità industriale. Lei no. Penso il cinema nemmeno le piacesse.
Divenni presto geloso dei nostri dialoghi. Le occasioni in cui la gelosia mi montava erano rare visto che la videoteca era poco frequentata, ma a volte si presentavano il proprietario o qualche avventore a rompere l’idillio. Avevo intuito il lavoro non le andasse a genio. Col senno di poi non la biasimai. La maggior parte dei clienti era rappresentata da uomini vecchi e soli che noleggiavano film porno. La sala dei film per adulti era separata dal resto del locale. Delle tendine a frange marroni impedivano ai curiosi di vedere cosa ci fosse all’interno. Era incredibile quanta gente entrasse nel reparto del porno, almeno in rapporto al numero complessivo di persone che frequentava il negozio. Moira era gentile con tutti, ma quando i porno-zombie se ne erano andati esprimeva il proprio dissenso. Alcuni prendevano la cassetta e uscivano senza dire nulla, quasi fossero stati avvolti dal senso di colpa per i vizi che si accingevano a nutrire, altri rimanevano a fare conversazione e discutevano del film. Moira riusciva a mantenere un controllo difficile da replicare.
Quando non era impegnata a parlare coi porno-zombie, prendeva il pacchetto di sigarette – sempre e solo Marlboro Light dure – e mi chiedeva di accompagnarla all’esterno. In cambio della compagnia mi allungava una cicca. Mi prendeva in giro perché non aspiravo. Io trattenevo il fumo più che potevo per farle credere il contrario. Non funzionava. Ne ridevamo.
Le conversazioni divennero intime. Parlavamo di come rapportarsi con le persone. Lei mi raccontava dei problemi con le sue amiche. Io di quelli coi miei compagni. Ci dividevano 15 anni, ma non me lo faceva pesare.
Un pomeriggio di metà luglio due amici vennero a trovarla. Erano suoi coetanei. Moira fece il possibile per tirarmi in mezzo alla conversazione, ma i due non mi considerarono. Mi sentii abbandonato, tradito e geloso. Quando se ne furono andati, un’ora più tardi, non spiaccicai una parola per dieci minuti. Moira comprese il mio stato d’animo e iniziò a parlarmi di un film con Stallone. Le dissi che non reputavo giusto che si fosse comportata in quel modo. Mi domandò in quale modo. Risposi che era stata una puttana. Moira tirò un pugno al bancone e urlò di ripeterglielo. Mi sentii sopraffatto dalla paura e della vergogna. Mi alzai di scatto e corsi verso l’uscita. Moira mi seguì rincarando la dose e dandomi del codardo. Non le risposi e me ne andai. Aveva ragione.
Trascorsi due giorni nella più completa apatia. Quando tornai alla videoteca, avevo il cuore in tachicardia. Temevo di aver perso una delle poche persone con cui amavo trascorrere il tempo. Entrai trattenendo il respiro. Moira mi guardò e sorrise. Espirai sentendo la tensione sciogliersi lungo tutto il corpo. Le chiesi scusa per quanto ero stato stupido. Mi rispose che anche lei aveva esagerato e che sapeva che in fondo non pensavo quello che avevo detto. Tornammo a parlare di cinema e mi sentii bene.
Non passò molto prima che Moira iniziasse a prestarmi le videocassette gratis. Qualche volta addirittura me ne regalava di quelle invendute da anni, stipate in uno scatolone in fondo al locale. Non erano inventariate, quindi ufficialmente non esistevano. Erano per lo più film di serie B che spaziavano dalla fantascienza all’azione. Quando mi prestava i film, Moira mi ammoniva a riportarli il giorno successivo. Era l’unica condizione. A inizio agosto, su mia insistenza, mi prestò Monella di Tinto Brass.
Non era intenzionata a farlo, ma fui così spossante che alla fine cedette. Mentre correvo a casa con la videocassetta ben fissata sul portapacchi, fibrillavo dall’eccitazione fisica e mentale. Quando gliela riportai il giorno successivo, colsi dell’amarezza nel tono con cui mi parlava. Si sentiva in colpa per aver ceduto, benché non lo dicesse. Mi sentii in colpa di rimando per averla messa in imbarazzo. Non le chiesi più di prestarmi quel tipo di film. Quella fu l’unica volta in cui lei acconsentì a darmi una pellicola che in realtà non voleva prestarmi. Col tempo giunsi alla conclusione che non voleva farmi vedere film che pensava potessero danneggiarmi. Non dovevo sporcarmi con certo materiale.
Quando la scuola riprese, diminuii la frequentazione. Andavo in videoteca un paio di volte a settimana anziché ogni pomeriggio. Stare con Moira era piacevole come sempre, ma la vicinanza andava scemando. A metà novembre mi disse che si era licenziata e che se ne sarebbe andata da lì a due giorni. Aveva trovato un lavoro come apprendista segretaria in una conceria di Arzignano, a dieci minuti di auto da Lonigo. Un amico del proprietario avrebbe preso il suo posto. L’ultimo giorno ci salutammo con un abbraccio. Mi raccomandò di stare bene. Ricambiai. Non mi voltai mentre tornavo a casa. Volevo piangere, ma resistetti. Fu l’ultima volta che ci vedemmo.
Non tornai più alla videoteca. Due anni dopo fallì. Al suo posto aprirono un negozio di bici.
A casa custodisco ancora la videocassetta de I Cacciatori della Notte, film che Moira mi regalò al rientro dalle ferie, verso la fine di agosto. Era nello scatolone dei film in vendita. Sia io sia lei sapevamo che nessuno l’avrebbe mai comprato. Le chiesi quanto costava. Mi guardò e rispose che potevo prenderlo gratis. Le domandai se diceva sul serio. Disse di sì.
E così feci.
...segui Gianpietro.
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