Il senso del dovere

Lisa Martignetti

La “ragazza dei cimiteri” dà nuova vita ai funerali

Dimenticate “Caron dimonio con occhi di bragia” e sguardo impietoso. La traghettatrice del terzo millennio è un’affascinante quarantenne bergamasca dallo sguardo pieno di empatia, che si prende cura dei defunti come fossero suoi. Gli parla, canta, li lava e li veste con cura, «perché sono persone e sono lì con me in quel momento». Lisa Martignetti si definisce “la ragazza dei cimiteri” e IL SENSO DEL DOVERE lo esprime accompagnando i vivi e i morti (parola oggi bandita) verso l’ultimo viaggio: non la classica operatrice funebre, ma servizi innovativi per il settore. Una “funeral planner” a tutto tondo: pianificazione in vita della propria dipartita, catering, abito, fiori, musiche e persino la blacklist con gli invitati non graditi. Un tarlo ereditato dal padre e già attecchito nella figlia che a quattro anni, vedendo passare un carro funebre, disse che era la sua macchina preferita. «Lavoro con la “Signora”: ho seguito corsi di formazione per diventare operatore funebre, necroforo, cerimoniere e addetto al trasporto di cadavere, mi manca quello di direttore tecnico e poi posso aprire un’impresa mia».

Passione vera, insomma…

«Dopo la morte del mio babbo ho deciso di diventare una funeral planner e ho coniato questo termine inglese, per il quale ho ricevuto anche critiche. Ma il mio desiderio è solo aiutare le persone: sia a pianificare l’ultimo viaggio, sia alleviando i parenti dalle incombenze pratiche».

Esiste un profilo di coloro che desiderano organizzare in vita il loro funerale?

«Circa il 70 per cento sono donne e mamme. Forse c’è una maggiore sensibilità a predisporre il proprio ultimo saluto: credo sia un grandissimo atto d’amore verso te stesso, ma soprattutto verso chi ami, per non lasciare tutto sulle sue spalle. Poi ci sono i malati, la maggior parte oncologici, con i quali sento di avere una responsabilità ancora più grande: chiunque di noi ha i giorni contati, ma loro sono consapevoli, alcuni sanno di non avere proprio speranza e a volte riescono a trovare una forza incredibile. So che può sembrare un paradosso, ma confrontarmi con queste persone mi dà la carica per guardare l’esistenza da una prospettiva totalmente differente: a volte scherzano persino su come sarà il loro funerale. Una ragazza mi ha detto che noi sottovalutiamo innanzitutto la nostra vita, ma soprattutto la morte e il fatto di pianificarla la rendeva felice. Alla fine, è solo una lista dei desideri, di come vorresti essere ricordato…»

Ci sono anche giovani in buona salute che vengono da lei?

«Ho avuto una ragazza di 26 anni e poi un ragazzo di 23, che mi ha fatto persino preoccupare. A causa mia abbiamo dovuto rinviare due volte il nostro appuntamento e l’ho sentito piuttosto contrariato e insistente: pensavo volesse suicidarsi, invece si preoccupava solo di tutelare i genitori nel caso gli fosse successo qualcosa perché era figlio unico».

Come funziona, una volta pianificato conserva lei la lista dei desideri?

«Una copia la consegno all’interessata o interessato, che spesso la deposita dal notaio insieme al testamento. Ho un modello che compiliamo insieme e il nostro incontro talvolta diventa una seduta psicanalitica perché si vanno a ripercorrere frammenti di vita. Perfetti sconosciuti fino a pochi minuti prima mi raccontano cose intime come se ci frequentassimo da anni. Magari ci vediamo in un caffè, che è un contesto dove non ti aspetteresti di affrontare argomenti intimi con qualcuno con cui non sei in confidenza, e le persone si aprono e parliamo anche tre o quattro ore. Alcune sedute mi cambiano veramente la prospettiva. Per me questo lavoro significa empatia e passione. Sono argomenti tristi, ma fanno parte della vita».

I familiari potrebbero rifiutarsi di eseguire i desideri del caro estinto?

«Si, ma come dicevo, di solito le persone depositano dal notaio le loro volontà. Quando è possibile chiedo anche la controfirma di un familiare».

Le è capitato che qualcuno si opponesse?

«No, anzi, semplifica le cose e quando avviene il decesso non devono fare altro che piangere il proprio caro».

Quanto costa all’incirca la sola pianificazione?

«Poche centinaia di euro. Il mio commercialista dice che mi faccio pagare troppo poco».

Come fa a non farsi coinvolgere quotidianamente dai lutti e dalla morte?

«Nei corsi di formazione insegnano a “non portarti il lavoro a casa”. Non è il mio caso, io sono estremamente empatica e non riesco a mantenere le distanze: non mi prendo confidenze e so come devo comportarmi con la famiglia, ma non resto indifferente. Ad esempio, non dico mai “condoglianze”, parola orrenda, ma “mi dispiace” perché è vero che mi dispiace. E poi, capita che alcuni parenti si affezionino: giusto la settimana scorsa sono andata a casa di una vedova a far merenda con la mia bimba, a volte si creano legami».

Ma le capiterà di svegliarsi allegra, magari con il desiderio di mettersi un vestito colorato e non aver voglia di tristezza…

«Le poche volte che l’ho fatto, anche solo con dei jeans chiari e una camicetta a fiori, mi hanno chiamato e sono dovuta andare a casa a cambiarmi. Mi vesto di scuro per abitudine e perché a me piace il nero. Amo talmente il mio lavoro che non mi pesa nulla e sono felice di stare accanto alle persone che soffrono sapendo che in quel momento posso aiutarle. Non mi piace dire che mi prendo cura dei morti, perché mi prendo cura di una vita: di fronte ho una persona che continuerà a vivere nei ricordi e nei cuori di chi rimane. Domando sempre come si “chiama” il defunto o quanti anni “ha”, al presente, non uso mai il passato».

Si è mai chiesta da dove venga questa “passione” per un’attività che alla maggior parte della gente fa orrore?

«Ringrazio tantissimo mia nonna che fin da bambina mi ha portata nei cimiteri. Per me era un parco, o almeno lo definivo così. Penso che in un cimitero ci sia più vita che morte, perché davvero regnano tutti i sentimenti: persone che sorridono, ridono, piangono, arrabbiate, deluse e felici. C’è tanta arte, ci sono gli animali ci sono la vita e la morte, c’è tutto».

In passato c’era molto più buon gusto: le lapidi e le tombe, anche semplici, erano belle e con grafiche eleganti. Oggi si vedono spesso cose orribili e trionfi di kitch, come mai?

«Si vuole negare la morte. I nostri nonni, senza saperlo, erano dei funeral planner ante litteram: spesso già in piena salute si acquistava la propria tomba e si dava importanza a questo rito di passaggio. Chi se lo poteva permettere pensava al sepolcro come opera d’arte, infatti i cimiteri monumentali sono musei a cielo aperto. Poi c’è stato qualcosa che ha voluto bloccare e fermare la morte, ci crediamo immortali».

Ovviamente lei ha già scritto il suo epitaffio: “Fece della morte la sua vita”. Dopo questi anni di esperienza e di frequentazione con la Signora come si rapporta con lei: le fa paura, la incuriosisce?

«Lavoro in mezzo tra due grandi potenze che sono la vita e la morte, viaggio sottobraccio con loro. Questo ha cambiato l’importanza del mio quotidiano, del dirsi le cose con le persone care, di non vivere in modo superficiale rinviando a domani: lo faccio adesso, oggi. Come dicevo, vedo la vita in maniera totalmente differente rispetto al passato. La morte non mi fa paura, temo piuttosto di andarmene senza riconoscere le persone, temo la demenza o che possa star male mia figlia, queste sono cose che mi spaventano».

E cosa pensa dell’aldilà?

«L’ho scritto nella mia biografia di Instagram: se fossimo già noi nell’aldilà e il regno dei morti fosse la vita?»

Fotografa cimiteri e scrive poesie: è il suo lavoro che la ispira?

«La potenza della morte, e quindi la sofferenza, sono da sempre fonte di ispirazione. Nick Cave, uno dei miei artisti preferiti, segnato dalla scomparsa di due figli, ha scritto canzoni e libri che fanno accapponare la pelle: sceglie di affondare nel buio dell’esistenza e nel tormento per affrontare ed elaborare il dolore. In Sette Salmi, un capolavoro assoluto, ripete una frase meravigliosa nella sua crudezza: “Una cosa del genere non dovrebbe mai accadere, ma noi moriamo…”».

Esiste un modo per elaborare un lutto?

«È soggettivo e molto dipende dal tipo di lutto: la perdita di un genitore anziano è diversa da quella di un figlio. La cosa che posso consigliare è di ascoltarlo, attraversarlo, non rifuggirlo perché non riusciremmo mai a elaborarlo. Non è facile, ma credo che occorra tenerlo accanto e guardarlo in modo differente. Se lo rifuggi prima o poi busserà alla tua porta per dirti “sono ancora qui”: l’ascolto è fondamentale. Aiutano anche l’attività fisica e l’attenzione verso di sé. C’è un’azienda con cui collaboro, TRIGESIMA, che ha studiato e realizza prodotti di supporto all’elaborazione».

Richieste curiose che le sono state fatte?

«Diverse, mi vengono in mente l’angolino di rum e sigari per i presenti alla veglia funebre o le mongolfiere appese al soffitto che mi ha chiesto un’amica».

Organizza anche banchetti come usava in passato.

«Spesso non vengono capiti, ma sono estremamente utili e apprezzati da chi resta: invece di dover preparare il caffè agli ospiti hai già tutto pronto».

Lei parla anche di blacklist: come si fa a tenere lontane le persone indesiderate?

«Se siamo liberi di invitare chi vogliamo a un compleanno o a un matrimonio perché non farlo al funerale? In effetti è spiacevole, ma mi è capitato di chiedere a qualcuno, su richiesta del defunto o dei parenti, di allontanarsi. I funerali sono lo specchio della vita e talvolta delle piccolezze umane: rancori, gelosie, antipatie e tutto il resto».

Critiche ne avrà ricevute per la sua attività…

«Certo: che mi sono creata un business sulle disgrazie altrui, che lucro sulla morte e tanto altro, ma vado avanti».

È difficile essere donna in un mondo tradizionalmente maschile?

«Sì, faccio molta fatica, e tante colleghe in giro per l’Italia pensano lo stesso. Molti non credono che la figura femminile sia importante durante un lutto, preferiscono l’uomo, è come se tutto si riducesse a sollevare una bara. Durante il Covid, con tutto quello che ha rappresentato tra separazioni forzate, distanziamento e morti in solitudine, mi sono sentita dire che ero troppo empatica con le famiglie…»

A questo punto parliamo del suo funerale…

«Preferisco non rivelare, non vorrei essere copiata».

So che ha dato disposizioni per l’abito…

«In nero con un accessorio colorato i presenti, total black io. E prima di chiudere la cassa, completamente nuda: concludo il ciclo come sono arrivata al mondo e riparto. Ceneri disperse all’aria aperta in un bosco».

Cosa si aspetta dopo?

«Qui dovremmo aprire un discorso lungo, in cui nessuno di noi ha certezze, ma credo ci siano vite precedenti e quindi magari future».
...segui Lisa.

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Carlo Bocchialini
Giornalista con un breve passato da avvocato, per le riviste del gruppo Rizzoli – Corriere della Sera, ha realizzato servizi e reportage in Italia e nel mondo per poi approdare a Parigi come corrispondente durante la presidenza Sarkozy. Ha collaborato anche con vari periodici e quotidiani nazionali. È stato professore a contratto di “Linguaggio del giornalismo” all’Università di Parma e si è diplomato in Terrorismo Internazionale all’Università di St. Andrews in Scozia. Appassionato di arti marziali da più di trent’anni, insegna Krav Maga, disciplina israeliana di difesa personale, di cui è cintura nera 2° dan e istruttore federale. (La foto è merito di Gio’ Rossi.)

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