Primo Piano

Bussano alla porta

La tensione per il Nulla

Shyamalan è un regista a cui sono affezionato.

Ricordo come fosse ieri quando vidi Unbreakable – Il predestinato, a 12 anni, in un cinema deserto del mio paese. Un film incredibile, totalmente diverso da quanto avevo visto fino a quel momento. Col tempo capii che era una re-invenzione dei film sui supereroi molto prima che la Marvel monopolizzasse l’argomento.
Ciò che più mi colpii al tempo fu la capacità di disattendere tutto quello che mi aspettavo da un film di quel genere. Non parlo della vicenda in sé, ma delle inquadrature. Gli stacchi di montaggio, i movimenti di macchina, i tempi di ripresa, i ritmi compassati e inquietanti, tutto si allontanava da quello che al tempo definivo “classico” (con tutte le sfumature semantiche del caso).
Perché questa premessa?
Perché “Bussano alla Porta” è un ritorno dello SHYAMALAN migliore, quello capace di creare tensione col nulla, dimostrando quanto sia un regista in grado (nei casi più riusciti) di proporre allo spettatore soluzioni tutt’altro che scontate, senza però sacrificare un impianto narrativo chiaro e ben decifrabile.
Prendiamo il finale: la soluzione del film è semplice e straniante: i quattro personaggi che hanno bussato alla porta hanno ragione, sono i cavalieri dell’Apocalisse e, solo col sacrificio di Eric, il mondo sarà salvato. Semplice e lineare.

Parrebbe un finale deludente e invece è il migliore che ci si poteva aspettare.

Per un’ora e mezza si resta incollati alla poltrona nutrendo il dubbio che Leonard, Redmond, Adriane e Sabrina siano dei folli, degli invasati vittime di una psicosi collettiva che hanno preso di mira la coppia omosessuale di Eric e Andrew per ragioni omofobe. La soluzione finale si pone in una posizione intelligente, che svia certi pregiudizi sullo “shyamalan-twist” (il ribaltamento finale di trama di quasi tutti i film del regista) affermandolo per contrasto.
Nel nutrire il dubbio che quanto stiamo vedendo sia o meno attendibile, optare per quanto sostenuto dall’inizio del film, sebbene messo in discussione più volte, è tanto immediato quanto stordente. È un twist camuffato da non-twist, ma appunto per questo più sorprendente. Un trucco, una soluzione che abbiamo sempre avuto davanti agli occhi ma che abbiamo scelto volontariamente di non vedere.
Come l’uso del tutto geniale di Dave Bautista: energumeno di due metri per 120 kg, stretto in una camicia a maniche corte, l’attore interpreta un maestro elementare che fa dell’assertività la propria caratteristica caratteriale; ci si chiede quando esploderà la brutalità suggerita dal fisico che lo connatura e invece non ci sarà nessuna esplosione, perché Leonard è solo un maestro elementare che, a mo’ di eponimo, insinua il dubbio di essere qualcosa di diverso da ciò che invece è.

Alla luce di ciò si sostanzia un altro discorso, più esplicitato ma non per questo meno profondo: cos’è un sacrificio?

Se guardiamo al senso in sé della parola ci rifacciamo a un più etimologico “rendere sacro/fare il sacro”. E dunque, cos’è il sacro, quando si concretizza il sacro?
La scelta di ambientare la vicenda nelle quattro pareti della casa nel bosco rimanda a un’interiorità dell’analisi evidente e di facile decifrazione, grazie all’uso di primissimi piani con lo sguardo in macchina e a una serie costante di dialoghi in campo e controcampo. I flashback creano un attaccamento alla coppia di padri privo di ricatti morali. Il senso della scelta, del sacrificio, acquista un senso particolare al netto dell’aver preso per protagonisti due persone omosessuali. Si crea un’universalità dell’idea di famiglia e genitorialità che rilancia a un senso più concettuale che emotivo.
Per questioni meramente biologiche due genitori monoparentali inventano la genitorialità a un livello prima mentale e poi fisico. È biologia, non discriminazione. Dunque Shyamalan ci domanda cosa si è disposti a sacrificare per salvare se stessi, e il mondo, suggerendo come ogni rapporto umano, affettivo o meno che sia, sia interdipendente dal particolare all’universale, partendo da una base concettuale.
Si rende sacro ciò che ti/ci rende umani: amare scegliendo di amare, facendo leva sulla ragione, su ciò che ci distingue da qualsiasi altro essere vivente, ma che per questo rende più profonda e stabile la fragilità che rende irripetibili le nostre esistenze.
La loro finitezza e il bisogno di renderle, fosse altro in maniera illusoria, perpetue, dandosi all’altro e riconoscendosi nel limite esistenziale di un’altra persona.
...segui Gianpietro.

Lisa Martignetti

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Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

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