Il senso del dovere

Laura Lombardi

“Salvo bambini ogni giorno, ma vorrei cucinare di più per la mia famiglia”

Al massimo ti raccontano che fanno missioni nei luoghi disagiati del mondo. Operano bambini che diversamente avrebbero un destino di miseria ed emarginazione. Lo fanno sembrare quasi normale. Non si dilungano sulle 16/18 ore in sala operatoria, sui 35 gradi quasi immutabili il giorno e la notte, sulla clausura di un mese confinati in luoghi che non sono proprio il Ritz, sulle cene saltate perché ti butti in branda stremato e non riesci più ad alzarti. Non ti direbbero che fanno tutto questo solo per un sorriso. Ve lo racconto io – e perdonerete l’inciso personale – che li ho visti all’opera alcuni anni fa in Bangladesh: un reportage da cui abbiamo ricavato un libro, insieme all’amico fotografo Massimo Dall’Argine.
Laura Lombardi era là, insieme a tanti altri che lo spazio ci impedisce di citare, coordinati dall’ideatore di queste missioni, Carmine Del Rossi, ex direttore della Chirurgia pediatrica di Parma.

È lui che le ha trasmesso la passione per la chirurgia pediatrica?

«Avere un mentore e un maestro del suo livello non è cosa comune e poterlo trovare nel proprio percorso di formazione può cambiare la vita: ha un’esperienza unica a livello mondiale nella correzione delle malformazioni congenite. La chirurgia pediatrica è una visione aperta sul futuro, il più delle volte è ricostruttiva a differenza di quella degli adulti che è demolitiva: mette a posto ciò che la natura non ha fatto bene».

Che tipo di interventi vengono realizzati nelle missioni?

«Soprattutto di ricostruzione a bambini che nascono con malformazioni congenite, in particolare del tratto gastrointestinale o genitourinario: nei loro paesi non vengono corrette, condannandoli a una vita menomata e spesso all’emarginazione sociale».

Vi capita di intervenire su malattie diverse da quelle che curate in Italia o che magari qui sono scomparse?

«Le patologie congenite malformative del bambino sono le stesse in tutto il mondo, semplicemente variano nel numero: nei paesi occidentali, a causa della ridotta natalità e alla diagnosi prenatale, sono drasticamente crollate».

In quali paesi operate?

«Le missioni vanno avanti da circa trent’anni, sotto l’egida di una onlus che si chiama “OPERARE PER” e sono principalmente in un ospedale di Khulna in Bangladesh, gestito dai missionari Saveriani – che noi abbiamo aiutato a realizzare – ma sono state fatte anche in Iraq, Rwanda, Uganda e in questo momento abbiamo richieste dalla Sierra Leone».

Ricevete anche specifiche domande d’aiuto?

«Sì, di volta in volta valutiamo e decidiamo. In questi giorni, stiamo curando a Parma una bambina con una gravissima patologia che abbiamo fatto venire insieme alla mamma dalla Somalia su segnalazione della Caritas di Parma».

Quanto dura in media la missione?

«È in funzione della quantità di pazienti da operare e anche, ahimè, delle necessità lavorative di chi deve partire: siamo tutti professionisti di aziende ospedaliere e utilizziamo le nostre ferie per questi periodi. Di solito un mese circa, ma in alcuni luoghi in Africa, dove lavoriamo in ospedali pubblici e l’organizzazione è più semplice, possiamo ridurre a una quindicina di giorni».

I medici locali collaborano e cercano di imparare da voi?

«Lo scopo delle missioni, oltre alla cura specifica dei bambini, è anche quello. Non sempre è facile: in Bangladesh la collaborazione è sempre stata poco fruttuosa, mentre in Rwanda, dove stiamo andando con sempre maggior frequenza, stiamo ottenendo risultati migliori”.

Usate le ferie, ma gli ospedali italiani per cui lavorate vedono con favore le missioni o storcono il naso?

«Non abbiamo mai avuto difficoltà o malumori, anzi, le missioni vengono viste come motivo di vanto e di pregio per l’azienda ospedaliera».

Chi vi finanzia?

«All’inizio si era partiti con donazioni di benefattori poi, quando abbiamo visto che il meccanismo funzionava, abbiamo costituito la onlus che raccogliere donazioni private e 5 per mille».

Quanto costa un’operazione fatta da voi durante le missioni?

«Circa 300 euro. Siamo una piccola organizzazione e questo ha il vantaggio di non avere dispendiose strutture da mantenere. Gestendo direttamente ogni aspetto riusciamo a realizzare ottime economie di scala».

I maligni potrebbero chiedere perché non operare più gente in Italia riducendo le liste d’attesa…

«I nostri reparti non vengono in alcun modo penalizzati perché lo spirito della missione viene sentito forte anche dai nostri colleghi che restano a casa. E comunque saremmo in ferie».

Sempre i maligni: nei paesi “poveri” si fa esperienza sulla pelle di chi non può fare causa…

«Si va in missione solo nel momento in cui si è in grado di operare, esattamente come in Italia. La sala operatoria è un lavoro di squadra, non si è mai da soli: se c’è qualcuno meno esperto è sempre affiancato».

Quante ore lavorate nelle vostre “ferie” all’estero?

«Le operazioni durano in media sei o otto ore. I tempi sono un pochino più lunghi perché i macchinari sono spesso arretrati e occorre un livello di attenzione maggiore. A volte riusciamo a intervenire contemporaneamente su due sale operatorie e abbiamo già riempito la giornata dalle otto del mattino alla sera».

C’è tempo per fare turismo?

«No. Qualche passeggiata la sera o al pomeriggio se si finisce presto. Si impara a conoscere il paese attraverso le persone, i loro sguardi e le loro storie».

Veniamo all’Italia: quanto è stata lunga la carriera per riuscire a ottenere il “posto fisso”?

«Molto! Dipende sempre dal momento storico, però il percorso medico, in particolare chirurgico, è lunghissimo in termini di “posto fisso”. Ma ancor più di esperienza: io inizio a sentirmi chirurgo adesso, a 44 anni, dopo che mi sono specializzata nel 2008…»

Oggi un giovane medico a che età comincia a guadagnare?

«Per fortuna negli ultimi anni la specializzazione viene pagata ed è un contratto a tutti gli effetti, con diritti, ferie, maternità, ma il medico ospedaliero in Italia non è un mestiere di grandi guadagni. Deve piacerti perché le ore sono tante e, a differenza di altri paesi europei, la retribuzione non è adeguata».

Gli orari di una chirurga pediatra in Italia?

«Posso rispondere con quello che chiedono i miei figli: “Perché non sei mai a casa?” Le ore da contratto non corrispondono a quelle effettive e quindi faccio un po’ fatica a rispondere. Si è sempre pronti a correre per un’urgenza, di giorno o di notte».

È vero che molti giovani medici vanno all’estero e da noi vengono gli stranieri?

«È una mezza verità: molti vanno all’estero per una formazione più completa più che per il guadagno. Sì, ci sono stranieri che vengono in Italia, ma non sono numeri così eclatanti».

Parliamo di burocrazia…

«Ruba un sacco di spazio a quello che potrebbe essere il nostro lavoro effettivo: ci dobbiamo occupare di carte e adempimenti sottraendo tempo ai malati, un vero peccato…»

È brutto dover fare ancora queste domande: il fatto di essere donna pesa in qualche modo?

«Assolutamente sì, il pensare comune vede il chirurgo uomo: la tendenza è in calo, ma ancora presente. La donna medico viene spesso chiamata “signora” in corsia, ma la società dovrà adattarsi: ormai più di metà delle iscrizioni a facoltà di Medicina sono donne».

Si parla di crescente arroganza e maleducazione dei pazienti o dei parenti nei pronto soccorso e nei reparti: ha notato questa tendenza?

«Certo! C’è molta meno fiducia rispetto a qualche anno fa nel medico e nella struttura ospedaliera. In più, noi viviamo una situazione particolare perché dobbiamo riferirci a un papà e una mamma che ci affidano la cosa più cara che hanno. Quello che noto è la tendenza a mettere in dubbio quello che stai proponendo per andare a cercare, ovviamente con i sistemi più facili come internet, qualcosa di migliore o una conferma alle risposte che gli hai dato».

La più grande soddisfazione che le ha dato il suo lavoro?

«Lo amo tantissimo e lo faccio con totale dedizione e passione. Sono i piccoli e grandi successi quotidiani a sostenerti nella fatica: curare i bambini e vederli star bene è la più grande ricompensa».

Un incarico o una missione che le hanno cambiato la vita?

«Forse è troppo presto per dirlo, ma sono appena rientrata dal Rwanda dove per la prima volta sono stata responsabile di missione. Serviva per ripartire dopo due anni di pandemia e c’erano tanti pazienti che ci aspettavano. Abbiamo fatto solo una decina di giorni e sono partita con un grande peso sulle spalle, ma sono tornata con tanti successi. Devo ancora elaborarla del tutto, potrebbe essere stata una svolta dentro di me».

Cos’è per lei il senso del dovere?

«È una cosa che ho dentro, un insieme di responsabilità che ho deciso di caricarmi nel momento in cui ho scelto di fare il chirurgo. Vuol dire prendersi cura dall’inizio alla fine di un paziente e della sua famiglia senza pensare a orari o impegni personali».

Un suo pregio?

«La vitalità, non perdere attimi e occasioni. Essere fortemente attaccati alla vita, quella vera».

Un difetto?

«L’impulsività e a tratti l’impazienza, che però restano fuori dalla sala operatoria. Me le concedo solo quando esco dal lavoro…»

Un consiglio ai suoi figli su come affrontare la vita.

«Sorridendo, guardando sempre con positività al futuro nonostante gli eventi avversi e cercando il bello in ogni cosa. E poi, capire chi si è per seguire fino in fondo la propria indole».

Qualche rimpianto cose che non ha fatto e che avrebbe voluto fare o che vorrebbe cambiare della sua vita?

«Risponderei con una frase di De Andrè: “Ricordi tanti e nemmeno un rimpianto”! In realtà i rimpianti sono legati alla famiglia, al poco tempo che dedico ai miei figli – che spero un giorno capiranno – e al poter dedicare più spazio ad alcune passioni. Amo ad esempio cucinare. La cucina per me è cultura ed è anche un modo di prendersi cura degli altri, di farli stare bene. Vorrei farlo più spesso per la mia famiglia, per gli amici, per il gusto della convivialità».

Un’ultima domanda, forse maligna: come mai la maggior parte dei medici non sente il bisogno di fare missioni nella parte più sfortunata del mondo e voi restate una minoranza?

«Partecipare alle missioni richiede un enorme spirito di sacrificio, sotto tutti i punti di vista: rinunciare a parte delle ferie, al tuo tempo e ai tuoi cari, che spesso non capiscono il motivo per cui invece di andare al mare vai in Africa. Quando sei là devi occuparti di tutto e fai il triplo di lavoro rispetto all’Italia, in condizioni spesso disagevoli: bisogna sentirselo dentro».

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Carlo Bocchialini
Giornalista con un breve passato da avvocato, per le riviste del gruppo Rizzoli – Corriere della Sera, ha realizzato servizi e reportage in Italia e nel mondo per poi approdare a Parigi come corrispondente durante la presidenza Sarkozy. Ha collaborato anche con vari periodici e quotidiani nazionali. È stato professore a contratto di “Linguaggio del giornalismo” all’Università di Parma e si è diplomato in Terrorismo Internazionale all’Università di St. Andrews in Scozia. Appassionato di arti marziali da più di trent’anni, insegna Krav Maga, disciplina israeliana di difesa personale, di cui è cintura nera 2° dan e istruttore federale. (La foto è merito di Gio’ Rossi.)

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