Due calciatori, in piena pandemia, sudati, urticati, si mettono testa a testa durante una partita di calcio. Due uomini che si fronteggiano, che si scontrano – tra plausi e critiche di chi li osserva – e subito fanno parlare di “duello”, di “sfida”. Ma lo è, un duello? Soprattutto, voi credete davvero nel duello?
Io credo nel duello.
Ci credo perché è una forma di scontro “democratica”.
Perché in esso possono esistere uomini di qualsiasi ceto sociale, di qualsiasi provenienza intellettuale o categorie di fisicità virile, senza distinzioni e senza limiti che non siano quelli autoimposti.
Credo nel duello perché pur avendo, apparentemente, poche e ben definite regole, si basa su una sola di esse a cui tutti devono sottostare e alcune volte soccombere: quella del coraggio.
Inutile dire che questa proprietà fa parte del duellante per principio, ma è altrettanto inutile dire quanto spesso ci si lanci in uno scontro per provare il proprio coraggio, facendo così una fine ignobile e da dimenticare. Accanto al coraggio come regola fondante di questo termometro sociale (chiamiamolo per quello che è, senza timore di essere giudicati come dei sovversivi dello status quo e della borghese fiducia nella Legge) occorre tenere pronta della sana, ripeto sana e – sottolineerei – consapevole incoscienza. Non quella che fa da alimento al fuoco del timore, ma quella che permette al duellante di ergersi al di sopra del suo status e di lanciarsi, anche senza speranza, contro l’avversario e ciò che rappresenta.
È semplice pensare, facendo poco sforzo di memoria, a duellanti che hanno dato grande prova sul prato o che si sono battuti strenuamente contro l’ordine prestabilito delle cose pescando da letteratura e film. Facile portare alla memoria D’Artagnan, e il famoso romanzo d’appendice in cui tutto è un duello, contro il divieto di poterlo mettere in atto, contro un sabotatore della corona, contro il Male. Altresì farsi tornare alla mente le spade incrociate in film come La storia fantastica (capolavoro contemporaneo dell’arte del duellare in ogni modo, dalla spada all’intelletto) dove la vendetta è lo spirito ardente che muove i colpi oppure il “moderno” Zorro con la sua sete di giustizia e al tempo stesso di redenzione dalla propria classe agiata. O, ancora, rievocare un personaggio temibile come il Tim Roth in Rob Roy, e qualsiasi scontro a fil di lama si sia consumato cinematograficamente in questo ultimo secolo a cui potete essere affezionati, aggiungetelo sotto.
Restiamo sempre affascinati dall’osservare la difesa del proprio onore, della propria parola, dei cari e dell’amore… ma perché? Per il brivido? Per la voglia di metterci alla prova? Per la gloria? No. Perché ci appartiene. Da quando l’uomo si è issato sulle proprie gambe e ha cominciato a brandire una clava si è indissolubilmente legato al duello.
È un gesto atavico, primitivo, che lentamente si è codificato, ha assunto la sua forma più nobile, così come quella più brutale a volte, che percuote i nostri sensi ogni qual volta ci sentiamo piccati nel nostro essere, ogni qual volta il nostro sguardo si fissa sull’impertinente che ha osato metterci in dubbio oppure ogni volta che ci raddrizziamo, gonfiando la gabbia toracica, per affrontare un pusillanime che si fa beffe di noi.
E questo si è visto su quel campo da gioco, ma dissento dal definirlo duello, quanto più una bella botta di testosterone e spacconaggine, ma da vip.
Perché quando si decide di duellare non è solo il testosterone a parlare ma il grido che portiamo dentro da generazioni, quello di lavare via l’offesa con il sangue.
E non crediamoci, noi maschi, unici detentori del duello perché non lo siamo: “le cronache di alcuni quotidiani argentini, agli inizi del XIX secolo, riempirono parecchie colonne su un fatto singolare che destò un notevole scalpore negli ambienti mondani di Buenos Aires. Si trattava di un duello tra due donne dell’alta aristocrazia, provocato da una passione contrastata per un’alta personalità politica. Invece di padrini, rivestirono le funzioni di secondi quattro donne e una quinta fungeva da medico. È facilmente comprensibile perciò la ragione per cui il segreto non fu mantenuto. Tuttavia i cronisti si trovarono in contrasto circa l’esito dello scontro e, mentre gli uni sostenevano – forse convalidati dal fatto che una delle duellanti non si fece più vedere in giro – che costei appunto aveva subìto uno sfregio su una guancia, altri affermarono che il sangue non era sgorgato per nulla, e che quell’ultima si era ritirata in una villa di campagna per espiare la colpa di auto lesa dignità nell’aver accettato di battersi per un uomo.”
Nel Medioevo la cosa era abbastanza comune, a quanto pare.
In Francia, durante il regno di Luigi XIII, gli editti più o meno severi, le proibizioni rinnovate e ripetute non servivano a nulla; il duello continuava anche per il gentil sesso. “Si narra che a quel tempo, a Parigi, due dame di corte si batterono in duello a colpi di pistola. Il re disse, ridendo, ch’egli aveva proibito il duello soltanto per gli uomini. Il sangue femminile si vide scorrere, sotto il regno di Luigi XIV, tra la principessa di Polignac e la marchesa di Nesle, le quali sostennero un duello in piena regola per il duca di Richelieu, di cui si disputavano il cuore senza poterne ottenere la mano, essendo ambedue maritate. Le cronache del tempo diedero i più minuti particolari del fatto. Dopo avere stabilito di battersi alla pistola, le due signore scelsero d’accordo il terreno, si piazzarono l’una dirimpetto all’altra e si prepararono a far fuoco.
In quel momento la principessa di Polignac, sorridendo ironicamente e fissando la sua rivale disse: “La collera vi fa tremare la mano…”
Tirarono insieme. La marchesa di Nesle, colpita a un orecchio cadde per terra, come ferita mortalmente. Ai padrini che la sollevavano da terra, disse: “Avrei voluto essere ferita al cuore. Guardate il mio sangue. Oh! Perché non ne ho di più prezioso da versare per Richelieu”. La ricompensa non fu certo all’altezza dell’accaduto. Alla sera, il duca di Richelieu, informato del duello, disse con indifferenza: “Non mettevo conto che codeste signore si battessero per me, Io non sacrificherei un solo dei miei capelli né all’una né all’altra”.
Peccato che la misoginia non permetta di apprezzare tali prodezze.
La codifica che dalla baruffa, dallo scontro vero e proprio porta a un atto liberatorio ma regolamentato da parole, figure chiave e animo indomito, imbrigliato da codici comportamentali e d’onore. E per capire meglio questo fiume arginato basta tornare al 9 dicembre del 1883, allo scontro tra i deputati Nicotera e Lovito di cui leggiamo una parte del verbale dei padrini:
I sottoscritti adempiono al dovere di dichiarare che le trattative per lo scontro tra gli onorevoli Nicotera e Lovito furono condotte colla massima cavalleria e tali rimasero pei sottoscritti sul terreno. Sul quale, i padrini ricordarono le regole della cavalleria, che i combattenti debbono scrupolosamente osservare, tra cui queste: che della mano sinistra non debba farsi nessun uso, sia in difesa che in offesa; l’ubbidienza immediata al comando di alto; il rispetto ai comandi in guardia, avanti; che al comando avanti abbia luogo l’assalto.
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