Primo Piano

Io capitano

Lo sguardo della crescita

Io capitano è ambiguo.

Affronta un tema delicatissimo e lo fa in un momento storico nel quale il peso di ciò che si dice e di ciò che si mostra assume tare diverse in base agli afflati moraleggianti che governano certo mainstream comunicativo.
L’ambiguità dell’ultimo film di GARRONE, però, è più sottile e profonda rispetto all’immagine che il film vuole dare di se stesso – e rispetto anche ad alcune dichiarazioni che il regista ha rilasciato dopo l’uscita della pellicola.

Coinvolti nell’odissea esistenziale di Seydou, si rischia di perdere di vista un dettaglio fondamentale che sta alla base narrativa del film: il protagonista è un migrante economico.

Il dettaglio sembra marginale, invece è fondamentale per inquadrare Io capitano in un’ottica diversa, ed emancipata, rispetto alle chiavi di lettura politica che in tanti hanno sbandierato dopo averlo visto.
Nella prima mezz’ora Garrone mostra il mondo di Seydou e questo mondo è tutto fuorché negativo.
Seydou vive in Senegal, in un quartiere povero di mezzo ma ricco di umanità. La famiglia lo ama, gioca con le sorelle, ha qualche simpatia per alcune coetanee (ricordiamo che ha 16 anni), sogna di diventare cantante col cugino Moussa, lavora, studia, danza in strada. Insomma, nel contesto di appartenenza ha una vita regolare, o quanto meno lontana da conflitti presenti in altre parti del paese.
Decide di partire per migliorare la propria condizione personale. Ma, attenzione, lo fa su insistenza del cugino (almeno all’inizio) in quanto si accontenterebbe del mondo che lo circonda. È legittimato a cercare di più spinto dal desiderio di ottenere un status che gli permetta di migliorare la propria condizione senza però che il contesto di partenza gli impedisca di avere una vita dignitosa.
È un dettaglio importante, che quasi si perde nello sviluppo del film. È importante perché ci impone di guardare il film con uno sguardo diverso, o meglio: con uno sguardo attento a come il film è costruito per comprendere cosa ci vuole dire.
In questo Garrone si riconferma uno dei migliori registi italiano degli ultimi cinquant’anni. Perché l’autore romano ha una capacità di focalizzarsi sui personaggi (in questo caso su Seydou, essendo lui il fulcro narrativo della vicenda) che rende universali temi e vicende all’apparenza appartenenti solo al contesto sociale/umano di chi li vive nella diegesi del racconto.
La tecnica si adatta agli obiettivi da raggiungere: sottotitoli, macchina da presa incollata al protagonista, incontri con co-protagonisti per evidenziare le evoluzioni narrative di Seydou (emblematico l’incontro col compagno di cella muratore), sguardo fisso sugli aspetti più crudeli del viaggio (le carceri della Libia), struttura che ribalta i ruoli di leader/gregario tra Seydou e Moussa, definizione finale di sé attraverso le presa di responsabilità col grido “io capitano”.
Benché il viaggio di Seydou attraversi mezzo continente africano, la macchina da presa ha un approccio intimistico e non si scolla da lui, costruendo la quasi totalità della messa in scena in interni e utilizzando mezzi piani, primi piani e dialoghi in campo e controcampo.
Le inquadrature ambientali sono relegate a pochi campi lunghissimi, su luoghi/contesti precisi: il cimitero, la prigione, la villa, la nave in mezzo al mare, tutti elementi che, nella loro singolarità, sottolineano la solitudine del protagonista.
Perché Io capitano è un film coming of age, un film di formazione personale dei più classici che si pone idealmente come seconda parte di un ipotetico percorso in due parti iniziato con Pinocchio del 2019 – non reputo un caso che tra gli sceneggiatori ci sia nuovamente Massimo Ceccherini, che proprio sul personaggio di Pinocchio ha fondato la sua fortuna comica.
Purtroppo però Garrone ha degli inciampi enfatici su alcuni dettagli (la donna incinta nel finale, l’aiuto all’anziana nel deserto, la solidarietà estrema della comunità di appartenenza) che stonano col registro complessivo e che danno l’idea di un’inconscia concessione a certo perbenismo politicamente corretto incapace di vedere la questione dei migranti al di fuori della bagarre mass-mediatica; una questione che riguarda delle persone in quanto tali, capaci di definirsi con le loro azioni, prima di essere strumenti di rissa da salotto televisivo tra avversari politici.
Dettagli, forse, ma che ci permettono di apprezzare il loro contrario, ovvero la grandezza visiva di un altrettanto grande regista.
...segui Gianpietro.

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Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

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