Non sono l’unica e, a quanto pare neanche la prima, ad aver pensato al bicchiere della staffa come argomento da sviscerare. La giornalista Kara Newman da New York si è documentata per decidere quale fosse la bevanda perfetta per il nightcap. Nel suo libro si evince che non esiste un drink per antonomasia, va bene tutto, purché sia l’ultimo. Intuizione lapalissiana per quanto mi riguarda, ma lei ha comunque selezionato e raccolto 40 cocktails che meglio concluderebbero la serata. Continua asserendo che, al giorno d’oggi, il bicchiere della staffa non viene preso molto in considerazione, ma che dovendo sceglierlo, si preferisce un superalcolico scuro (rum, brandy, whisky) invecchiato con ricordi di spezie dolci che più si avvicinano a dei dessert. E chi sono io per contraddirla?
Eppure in Italia, o magari solo a Roma, il bicchiere della staffa è un concetto più ampio, o comunque una dilatazione del tempo, che ti fa scegliere di bere ancora un ultimo bicchiere di ciò che stavi bevendo fino a quel momento o di cambiare radicalmente e scegliere altro. Il bicchiere della staffa può essere importante in quanto momento o in quanto bevanda. A determinarlo sei tu, la circostanza o qualcun altro per te. Ma se sei tu a deciderlo spesso è un’utopia, cerchi di trattenere quello stato in cui sei riuscito ad immergerti non accorgendoti che sta già passando. È qualcosa di impalpabile, irripetibile che cambia e evolve a ogni sorso.
Per questo primo articolo ho deciso che l’utopia del bicchiere della staffa si concretizzerà nel bianco Conestabile della Staffa.
Mi è capitato spesso, da cliente, di desiderare un ultimo bicchiere di ciò che stavo effettivamente bevendo, e ancora più spesso da “oste” di servire, finita la bottiglia, un ultimo calice dello stesso, per accontentare il cliente. Oggi, forse perché affaticata dalla lunga giornata e dalla digestione difficile, scelgo un vino semplice, dal gusto un po’ retrò. Il Conestabile bianco è un 50% Malvasia e 50% Trebbiano. Terreno argilloso, macerazione sulle bucce breve e vetroresina come contenitore. Vigneto a 300 m s.l.m. in quel di Montemelino Magione, in provincia di Perugia.
Danilo Marcucci ha rilanciato l’azienda di famiglia che conta 12 ettari, investendo nel naturale, niente solforosa, lieviti naturali, fermentazioni spontanee, ma tanta cura e attenzione nei delicati passaggi perché l’uva si trasformi nel miracoloso vino.
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