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Ferrari

Ferrari e l’errore della simulazione

Cosa si può ancora dire di Michael Mann?

È un gigante, un regista che ha inventato parte del cinema d’azione come lo conosciamo oggi, un profeta spesso inascoltato capace di reinventare il proprio stile (Miami Vice serie tv e film) e, se non bastasse, il regista dell’heist movie per definizione (Heat).
Cosa si può dire di un regista del genere? Nulla. Ci si toglie il cappello e si ascolta in religioso silenzio.
Da qualche anno non si avevano notizie di un nuovo progetto da parte di Mann. Dopo il flop di Blackhat (2015) il nostro si era buttato sulla scrittura, sfornando un libro che, manco a farlo apposta, compiva un ulteriore passo avanti nel proporre il suo stile e la sua visione del mondo sotto un’altra ottica – Heat 2, bestseller 2022.
Figuratevi quando, dopo ben otto anni di attesa, è arrivato nelle sale il tanto annunciato Ferrari.
Potenzialmente poteva essere il ritorno in pompa magna di un gigante; fattualmente si è trattato di un passo falso di un regista svogliato.
Prima di scendere nei dettagli: uso l’aggettivo “svogliato” con parsimonia. Tre quarti dei prodotti d’azione odierni non valgono la metà di Ferrari ma, capiamoci, se ci si siede a una tavola stellata ci si aspetta un pasteggiamento degno di questo nome.
E dunque Ferrari si rivela un film sciatto, privo di interesse, un prodotto senza infamia e senza lode che non avrebbe sfigurato nella filmografia di un regista senza grandi pretese ma che è nulla più che il minimo sindacale se parliamo di un gigante come Mann.
Divisa in due parti, la pellicola scorre lentamente mostrando un Adam Driver, totalmente spaesato e fuori cast, muoversi goffamente tra Maranello, Modena, casa e amante per inseguire la possibilità di vincere la Mille Miglia del 1957 così da risollevare le sorti finanziarie della scuderia del cavallino.
Le vicende della corsa sono relegate alla parte finale del film, con la tragedia di Guidizzolo, dove persero la vita undici persone, tra cui il pilota Alfonso De Portago, mentre tutto il resto del film è la preparazione alla gara, con le aspettative e l’importanza del caso.
Di per sé la struttura avrebbe un senso: costruire una gravitas personale per coinvolgere lo spettatore nella vittoria mutilata finale.

Il problema è che di gravitas non ce n’è manco l’ombra perché le proporzioni di verosimiglianza e inventiva sono invertite e calibrate male.

Mann ha realizzato alcune delle migliori sequenze action dal 2000 a questa parte puntando su un realismo esasperato, con riprese digitali, sequenze notturne e mdp a mano per immergere lo spettatore nella sequenza senza perdere il senso di realtà in un inseguimento, in un’esplosione o in uno scontro a fuoco.
In Ferrari, invece, Mann cerca il massimo del realismo nella costruzione della gravitas, con una messa in scena filologica di ambienti, abitudini (anche alimentari), costumi e trucchi, per poi mostrare l’incidente di Guidizzolo rifugiandosi in una CGI del discount che non spiega dove siano stati spesi i 95 milioni di budget dichiarati (spese di promozione escluse).
Pertanto si assiste a una simulazione di realtà talmente puntigliosa da scadere nell’effetto uncanny valley, una valle perturbante dove il desiderio di rendere reale e credibile il contesto si esaspera in un simulacro disturbante nella sua concretizzazione asettica.
E, se non bastasse, a sconfortare ulteriormente lo sguardo con non pochi momenti di noia c’è pure la sceneggiatura, capace di infilare una serie dopo l’altra di dialoghi da melodramma sbraitato nella quale la Cruz si veste da controfigura di se stessa di Non ti muovere.
Un po’ come se ascoltaste un comico spiegarvi le battute che recita durante uno spettacolo.
È un peccato, perché Mann non ha bisogno di presentazioni né di conferme. Ma appunto per ciò che è va detto ciò che non è stato.

Questo significa che non ci siano momenti validi?

No. Nella corsa finale si capisce che dietro la mdp c’è proprio lui, quel Michael Mann che tanto amiamo, ma lo si capisce in qualche momento, in qualche taglio obliquo di inquadratura capace di restituire allo spettatore la conferma di essere davvero di fronte a un realizzato del regista americano, almeno fino all’incidente.

Tuttavia, in un film della durata di due ore, è troppo poco. Anche per Mann.
Durante la promozione del film, che sta floppando ovunque, Mann ha dichiarato che il prossimo progetto a cui si dedicherà sarà Heat 2 (film); speriamo torni ai fasti del capolavoro del 1995.
Fosse solo per un quarto di quanto ci ha abituati.
...segui Gianpietro.

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Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

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