Il senso del dovere

Ahmad Massoud: combattere i talebani come tradizione familiare

Ahamad senza Massoud. Condannato a vivere all’ombra di una leggenda, figlio del “leone del Panshir”, il comandante mujahidin che aveva respinto sette offensive sovietiche (e che la sera parlava di poesia con Ettore Mo), a 34 anni si trova a gestire un ruolo che non gli invidia nessuno.
Capo del FRONTE NAZIONALE DI RESISTENZA DELL’AFGHANISTAN (NRF), Ahmad Massoud dall’estate 2021 è l’unico alfiere nella lotta ai talebani che hanno ripreso in mano il Paese.
«L’8 settembre 2001 (quando ci fu l’attentato in cui morì suo padre, ndr) ero un bambino, il giorno dopo mi sono dovuto trasformare in uomo. Non è dura, è infinitamente dura».
Scuole in Iran, formazione all’Accademia militare di Sandhurst in Inghilterra, King’s College di Londra e un master in politica internazionale alla City of London: percorso da perfetto leader e devozione totale alla causa afghana, ma sempre all’ombra di quel “Shah” che il suo omonimo padre, Ahmad Shah Massoud, si era guadagnato sul campo.
Significa re, capo, comandante e il giovane leader se lo trova davanti come ad affrontare le cime dell’Hindu Kush in scarpe ginniche: senza galloni da eroe e con un Occidente impegnato nella (altrettanto tragica) crisi ucraina.*
Dalla sua ha preparazione e determinazione: nel più perfetto spirito afghano dice che non mollerà mai la lotta, qualunque sia il prezzo da pagare.
La comunità internazionale è allo sbando sulla strategia da adottare nei confronti del regime, alternando aperture e chiusure dettate dagli interessi più disparati: da un lato si condanna la violazione dei diritti umani e la condizione delle donne, dall’altro si cerca di accreditare qualche risultato positivo ottenuto dal governo talebano. Una mancata chiarezza che fa gioco all’Emirato. In questo difficile contesto, la voce di Ahmad fatica a farsi sentire.
Ha appena scritto un libro (uscito in anteprima in Francia per i tipi di Bouquins) per parlare di Afghanistan, di politica internazionale, di rischio terrorismo e delle difficoltà che ha incontrato nel suo ruolo di orfano venerato. Crede nella diplomazia e nel dialogo, ma ventila un approccio “pragmatico” alla questione talebana che prevede l’intensificazione della guerriglia, se necessario.

Nel gennaio del 2022 i talebani le avevano proposto di entrare nel governo: come mai ha rifiutato?

«Da quando Kabul è caduta, nel 2021, abbiamo cercato di parlare e negoziare con i talebani, per far capire loro che la legittimazione di un governo viene dal popolo. Hanno detto di non preoccuparsi per la gente e mi hanno offerto un ministero che io ho rifiutato. La nostra resistenza è patriottica, siamo un movimento democratico e militare con lo scopo di difendere una visione del nostro Paese».

Oggi come sono i rapporti?

«Continuiamo a cercare il dialogo, ma con poco successo. Credo che abbiamo lasciato abbastanza tempo ai talebani per dimostrare le loro intenzioni: rifiutano qualunque forma di negoziato, hanno chiuso giornali e televisioni non di regime e hanno iniziato un’operazione di “rieducazione” dopo i vent’anni di “libertà”. Vogliono solo che gli afghani accettino l’attuale situazione e il loro medioevo. Noi chiediamo libere elezioni affinché il popolo possa scegliere il suo destino. Questa condizione non è negoziabile».

Una vecchia questione: il Paese è pronto e, soprattutto, desidera la democrazia?

«Nell’aprile 2014 il popolo è andato a votare in massa, mi sembra la migliore dimostrazione».

Il bilancio del loro governo è totalmente negativo?

«La popolazione è alla fame, il Paese in stato di anarchia, l’economia catastrofica, la sanità al collasso e le donne sono cancellate dalla vita pubblica. La gente manca di speranza e si sente abbandonata».

Per le donne i rapporti delle Nazioni Unite parlano di “apartheid di genere”.

«L’esclusione dalla scuola, dall’educazione, da tanti lavori è nota, ma ci sono conseguenze meno evidenti. Prima dei talebani, in molte famiglie erano le uniche a lavorare: venuto meno il loro stipendio si è diffusa un’ulteriore povertà. Le donne sono un fronte straordinario, oltre a manifestare per le strade, organizzano riunioni segrete e predispongono forme di insegnamento parallelo, anche on-line: se non si può andare a scuola, ogni casa diventa una scuola. Purtroppo, sono ancora troppo poche quelle che possono fruirne. L’Occidente si preoccupa tanto che le bambine non abbiano un’istruzione, ma visto che è in mano ai talebani è molto meglio che stiano a casa piuttosto che impregnarsi di fanatismo».

Ogni mese migliaia di afghani lasciano il Paese.

«Per evitare emigrazioni di massa e rischio terrorismo si deve smettere di usare soluzioni di breve termine, serve un governo legittimo sostenuto dal popolo e membro della comunità internazionale. Chiedo all’Europa: quanti milioni di afghani potete ancora accettare come rifugiati?»

Il Fronte Nazionale di Resistenza su quali attività si concentra?

«Cerchiamo di lavorare a livello politico, diplomatico e militare. Facendo pressione sui Paesi vicini siamo riusciti a impedire il riconoscimento e la legittimazione del potere talebano. Le azioni del Fronte e della società civile convergono sempre di più. Molti talebani pentiti si sono uniti a noi e stiamo creando legami con attivisti, gruppi etnici e religiosi, politici e vecchi membri del parlamento. La fisionomia della resistenza è cambiata molto negli ultimi mesi, con sempre maggiori ramificazioni internazionali. Sul versante militare, l’anno scorso abbiamo incrementato le operazioni e i nostri combattenti sono passati da 1.200 a 3.000».

Chi vi fornisce le armi?

«Per ora nessuno, contiamo su quelle rimaste nel Paese dopo decenni di guerra. Le nostre attuali forze non sono però sufficienti a rovesciare i talebani o, comunque, a farli sedere al tavolo dei negoziati».

L’Occidente vi sta aiutando?

«In questo momento gli sguardi sono tutti rivolti verso l’Ucraina.** L’Afghanistan non è una priorità, è comprensibile».

Lei è in Europa con il pretesto di presentare il libro, ma anche di parlare del suo Paese: cosa chiede in particolare?

«In guerra si ha bisogno di tante cose. Ma non sono qui per chiedere soldi, cerco di far capire che gli afghani sono soli. Sono passati due anni dal ritiro occidentale ed è sotto gli occhi di tutti che i talebani non sono minimamente cambiati, che il rischio terrorismo non si è abbassato e che l’Afghanistan è una bomba ad orologeria».

Lo scorso luglio il presidente Biden ha lasciato capire che i talebani stanno contribuendo ad eliminare la minaccia di Al-Quaeda dall’Afghanistan.

«Pensate solo a quanti fanatici stanno formando nelle loro madrasse. Se non facciamo nulla, tra cinque o dieci anni avremo un problema serio con la jihad. Quando le persone non hanno scelta e sono disperate, il terrorismo prolifera».

Un Islam moderato è ipotizzabile in Afghanistan?

«Mio padre era un perfetto esempio di Islam moderato. Io sono un esempio di Islam moderato. Prima dei talebani non c’è mai stato questo estremismo, non è nello spirito della religione e del mio Paese».

Nel libro scrive che il cammino sarà lungo e pieno di insidie, ma che si batterà fino all’ultimo respiro per restituire al suo popolo la libertà e la dignità: c’è un futuro da presidente?

«Rifiutando il dialogo i talebani non ci hanno lasciato scelta, ma sono molto ottimista sul futuro dell’Afghanistan. Non mi batto solo per il mio Paese e il mio popolo, ma per la sicurezza dell’intero pianeta, per un mondo migliore liberato da questa idra estremista».

Però non mi ha risposto…

Sorride…
* e ** l'intervista è stata realizzata a Parigi, pochi giorni prima che Israele venisse attaccata da Hamas.
Tutte le foto sono di Reza Deghati.

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Carlo Bocchialini
Giornalista con un breve passato da avvocato, per le riviste del gruppo Rizzoli – Corriere della Sera, ha realizzato servizi e reportage in Italia e nel mondo per poi approdare a Parigi come corrispondente durante la presidenza Sarkozy. Ha collaborato anche con vari periodici e quotidiani nazionali. È stato professore a contratto di “Linguaggio del giornalismo” all’Università di Parma e si è diplomato in Terrorismo Internazionale all’Università di St. Andrews in Scozia. Appassionato di arti marziali da più di trent’anni, insegna Krav Maga, disciplina israeliana di difesa personale, di cui è cintura nera 2° dan e istruttore federale. (La foto è merito di Gio’ Rossi.)

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