Primo Piano

Governance – Il prezzo del potere

La banalità del male

Riscoperta di pochi giorni fa.
Un film che non ha raccolto i RICONOSCIMENTI che avrebbe meritato.
Perché risulta semplice e un po’ stereotipato dirigere e pubblicizzare pellicole che trattano grandi drammi personali ed emotivi; meno immediato e più complesso è invece parlare di un dramma inserito in un contesto lavorativo, nel quale mostrare una realtà malsana, marcia, fatta di sotterfugi e imbrogli reciproci, senza però porsi da una prospettiva giudicante poiché questo è il mondo aziendale. Un universo abitato da personaggi in costante movimento, incapaci di empatia e dediti alla delegittimazione del prossimo come strumento d’affermazione personale.
Governance guarda in faccia questo stato di cose e ce lo mostra senza enfasi né retorica, sposando un registro in grado di rendere lo squallore esistenziale dei personaggi che si muovono nell’universo narrativo come qualcosa di banale nella sua normalità, e dunque ineluttabile e deflagrante.
La struttura del film di Michael Zampino è tripartita e segue il mantenimento del potere da parte di Petrucci.
Nel primo atto, scopriamo le ragioni che portano alla morte della Parisi, con Michele a fare da antitesi al cinismo fondante che guida le azioni di Renzo. Tuttavia, è un falso indizio, poiché le due figure non sono opposte ma speculari – dopo aver riparato il fanale rotto dell’auto dell’amico, Michele pretende il pagamento del lavoro da parte di Renzo, sancendo la tacita complicità nella gestione dell’omicidio.
Nella seconda parte, le difficoltà accerchiano il protagonista fino a raggiungere l’apice del climax, con l’ispettrice Ricciardi consapevole della colpevolezza di Petrucci ma impossibilitata a provarlo coi filmati della stazione di servizio – nella breve scena in commissariato, le tesi della poliziotta sono svilite in un paio di battute dal collega, a testimoniare l’impossibilità di redimere un sistema che va ben oltre gli attori che lo abitano.
Il dettaglio non è minimo, in quanto introduce il terzo e ultimo atto, nel quale le carte si scoprono ed esce la tesi del film: Renzo ottiene un avanzamento di carriera, Michele gestisce la stazione di servizio, la morte di Viviane viene archiviata e la Ricciardi non ottiene giustizia.
Di primo acchito sembrerebbe un canovaccio da denuncia civile, e in una certa misura lo è, ma Zampino ha l’intelligenza di optare per una messa in scena per antifrasi.
Il film disattende i dettami più comuni del thriller, optando per una narrazione che prosegue per dialoghi, i quali sono pronunciati in interni quasi esclusivamente lavorativi – anche nelle scene in casa, Renzo è spesso nel suo ufficio.
Lo straniamento nasce dal fatto che, seppure le inquadrature suggeriscano una certa evoluzione personale, le immagini confermano il contrario: i personaggi sono monodimensionali, non si presentano catarsi, né evoluzioni, né, per fortuna, la famiglia si rivela nucleo moraleggiante nel quale redimere i propri peccati.
Renzo Petrucci è lineare, luciferino, uno squalo in costante e perpetuo movimento; un personaggio agente non pensante, che, grazie all’ottima interpretazione di Massimo Popolizio, trasforma le caricature recitative in riflessi della propria natura camaleontica necessaria a sopravvivere nei vari contesti in cui si trova – nel confronto finale con Michele, lo dice chiaramente: “io non mi fermo, non ho nessun rimorso”.
Trattamento simile viene riservato a Michele: da proletario in preda ai sensi di colpa, man mano che la narrazione prosegue, scopriamo quanto i pensieri sulla morte di Viviane siano organizzati in un’ottica di mantenimento della propria posizione, non di affermazione della verità – il film si apre con Michele seduto in sala d’attesa e si chiude con Renzo seduto in giardino, perfettamente speculari.
Governance si rivela, quindi, un ritratto cinico e spietato dell’Italia d’oggi, inserito in una Roma molto citata ma poco mostrata, sorta di u-topia capace di elevare una storia personale a dramma collettivo.
...segui Gianpietro.

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Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

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