La reinvenzione del mito
Nel biennio delle scuole superiori avevo un professore di italiano appassionato di cinema.
Era una persona distinta, esperta di Pascoli e conoscitrice del cinema italiano come pochi. A discapito dei mostri sacri, il mio professore spendeva più di una parola per Pupi Avati.
In particolare ci trovammo a discutere di un film uscito in quel periodo che era tornato utile alle nostre lezioni: I cavalieri che fecero l’impresa.
Un film curato, non memorabile, ma interessante per la precisione storiografica.
Passo indietro: quando ero alle medie una notte non riuscivo a dormire; mi alzai e andai in salotto a guardare un po’ di televisione. Era notte fonda, orario per due tipologie di film: erotici soft-core, horror. Su Italia 1 trasmettevano un film che non conoscevo ma che mi impressionò a tal punto da impedirmi di dormire per il resto della nottata: L’arcano incantatore.
Altro film non memorabile ma ben realizzato, con grande attenzione alla forma, alla cura dei dettagli e alla recitazione. Un film professionale e preciso. Regista: Pupi Avati.
Perché questi esempi?
Perché Pupi Avati rappresenta una peculiarità nel panorama cinematografico italiano. Pupi Avati, più che un artista, è un artigiano, un autore capace di realizzare un film all’anno spaziando di genere in genere, senza paura di osare e fallire.
Cosa se ne trae, dunque, dalla sua ultima fatica, Dante?
Complesso da dire. Il film è un’opera testamentaria o ci si avvicina molto. Il regista bolognese accarezzava questo progetto da vent’anni, avendo trovato non poche ritrosie nel realizzarlo.
Le ragioni sono molteplici: difficoltà rappresentativa dell’argomento, basso appeal verso il pubblico, complessità della messa in scena. Il che suona ambiguo considerata l’importanza di Dante nel panorama culturale dello Stivale.
Avati lo ha capito e si è adeguato: il punto di vista non è di Dante ma di Boccaccio, il suo virtuale discepolo, l’uomo chiamato a intraprendere un viaggio lungo l’Italia per incontrare la figlia monaca del Sommo Poeta.
È una sorta di riverenza per la grandezza e la stratificazione dell’argomento. Come filmare la complessità dell’opera di Dante senza correre il rischio di omettere qualche aspetto fondamentale?
Impresa troppo ardua, pertanto meglio optare per una prospettiva diversa, più personale e meno immediata: la quotidianità.
Dante è un film che si fa forte della propria quotidianità, della propria impalcatura storiografica anziché storica. A leggere i nomi dei cattedratici che hanno collaborato alla realizzazione della pellicola cade la mascella per tanto zelo. E nel film lo si vede.
Per gli appassionati è un piacere per gli occhi; per i neofiti è una lezione indimenticabile.
L’uomo al centro, dunque, con le sue fragilità, i suoi bisogni, le sue aspirazioni, le sue debolezze. L’uomo al centro su un duplice binario: Boccaccio che l’uomo lo scopre e reinterpreta; Dante che si disvela e vive la propria esistenza al pieno della sua umanità.
E se il film fosse solo questo sarebbe un piccolo gioiello, una gemma rara da conservare con cura, e tanta commozione susciterebbe lo splendido finale, capace di sfiorare il lirismo più intenso mantenendo un registro concreto e personale.
Purtroppo c’è altro.
Avati ha creduto troppo in questo progetto. Tanti erano gli anni che lo avevano messo nella condizione di inseguirlo, quanto era il desiderio di non lasciare nulla in sospeso. E quindi la pellicola è sovraccaricata di sequenze oniriche talmente mal fatte da rasentare la parodia.
Nell’idea del cineasta emiliano la messa in scena dei sogni di Dante rappresentava un completamento della sua persona; nella realtà dei fatti mostrati sullo schermo si rivela una stonatura, un di più inutile e mal congegnato.
Come prendere sul serio l’immagine di Beatrice che addenta il cuore di Dante? Talmente forti e vibranti le parole di “A ciascun’alma presa e gentil core” che nelle mani di Avati la scena diventa avanspettacolo da film horror di serie B, vuoi anche per gli effetti (poco) speciali di Sergio Stivaletti.
Il registro onirico risulta del tutto insensato e incoerente, sminuendo un plot per certi aspetti commovente nella sua sincerità.
In questo modo Dante viene inventato e trasfigurato, ripensato in una chiave che possa contenerlo e proporlo a un pubblico digiuno di poesia, scadendo in tratti enfatici e banali, con picchi di precisione accorati e diretti.
Un film riuscito a metà, o meglio: a tre quarti.
E forse è un bene sia così: tanto gli aspetti irrisolti sono evidenti quanto risaltano ciò che è riuscito.
Affermare per contrasto, che è pur sempre una forma di conferma.
...segui Gianpietro.
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