Dopo i 7 architetti, i 7 podcast, i 7 sommelier e i 7 film vi raccontiamo il nostro modo di amare – e pensare – il vino attraverso i libri di 7 autori contemporanei, ciascuno portavoce e custode di una visione del mondo diversa eppure affine per la comune sensibilità, l’esigenza di profondità e il condiviso senso di bellezza che il buon vino sempre ispira ed esige.
Un libro aptico, ovvero tattile, vibrante e, pertanto, intimamente relazionale, scritto dal professore ordinario di Estetica all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, Nicola Perullo. Per fare filosofia col vino e, magari, cambiare paradigma, sia sul vino che sull’esistenza tutta. Perché il vino “vitale” è un incontro che innesta infiorescenze e intrecci nella vita dell’uomo che lo incontra, determinando movimenti che lo determinano inesorabilmente e, col vino, ordire il tessuto istoriato del terroir come spazio in movimento. Un libro intimo e universale, confidenziale e accademico. Un’occasione per imparare ad imparare restando aperti, sensibili, vitali. E per accedere a una dimensione altra di sé: un’occasione di riflessione, più ancora che di conoscenza. O, se preferite, di conoscenza di sé.
Approccio antipodico rispetto all’epistenologia di cui sopra ma non per questo necessariamente antitetico, Luigi Moio, produttore di vino nonché professore ordinario di Enologia all’Università degli Studi di Napoli Federico II, conduce il lettore alla scoperta della dimensione olfattiva del vino da un punto di vista rigorosamente scientista, analizzando aspetti sensoriali, biochimici e tecnologici. Per avere maggiore cognizione circa il “respiro del vino” quale esito di quella combinazione di molecole che altro non è se non “la più profonda traccia della terra, dei fiori, dei frutti, delle spezie, del mare, della montagna, del vento, della luce e di tante altre cose che [il vino] nobilmente rappresenta.”
L’anima più profonda del vino non è altro che l’uomo. Il vignaiolo per la vigna, in prima istanza, che è solo un tassello del “grande libro dell’umanità” al pari dello storico, del geografo, del filosofo, del musicista o dell’artista, ciascuno nelle e per le rispettive discipline. Ambiti tutti interrelati tra loro e intrisi, volendo, anche di vino. Ecco dunque che questo libro disegna un nuovo Umanesimo e, tramite il vino, vola ai confini della conoscenza scomodando, e con encomiabile disinvoltura, filosofi, accademici, matematici, logici, economisti, politici e artisti del nostro e del passato tempo, chiamati a raccolta attorno all’universalità di questa sostanza che, da sempre, lega l’uomo al Dio.
Un punto di vista critico, personale, particolare e di certo anche un po’ “corsaro”, nel senso pasoliniano del termine, sul vino, scritto da un vignaiolo per altri vignaioli o, semplicemente, per tutti i sedicenti amanti del vino. Una critica al gusto globalizzato e politicamente corretto quale esito del consumismo contemporaneo, che ha edificato il gusto estremamente globalizzato e il pensiero unico dell’Homo oeconomicus. Un libro interessante perché, nonostante i presupposti manifestamente (gius)naturalisti da cui parte, mostra la volontà dell’autore di giocare a carte scoperte e, rifuggendo ogni estremismo, porre domande più che dare risposte. Un testo del 2012, più attuale che mai.
Giulio Gambelli visto da vicino, ovvero raccontato dalla viva voce di uno dei suoi più intimi conoscitori – ed estimatori – già direttore di Winesurf, Carlo Macchi. Un libro per conoscere uno dei più grandi interpreti del Sangiovese toscano, colui che ha forgiato la conoscenza – e la creatività – di tutta la prima generazione di produttori toscani. Un testo fondamentale, dunque, per entrare nella più intima essenza di “uomo all’antica”, ancora capace, già allora, di riconoscere il ruolo sodale – oltre che essenziale – del tempo, e di considerare l’attesa un valore.
Un libro “perpetuo” per tutti gli amanti del vino e foriero, forse, oggi, di un pensiero non sempre attuale eppure sempiterno per via tanto della prosa sottile, e sublime, quanto per la trascinante capacità d’affrescare scorci di un’Italia ideale che sopravvive poco nei ricordi e tanto, tantissimo, nell’immaginario collettivo. Frammenti di un’età dell’oro, anche del vino, che Mario Soldati – correvano gli anni Sessanta e Settanta – già allora cercava, rovistando tra le pieghe – o le piaghe – di una contemporaneità già piegata alle e dalle ragioni del consumo.
Eccovi un testo che, a modo suo, li racchiude tutti. Perché “L’invenzione della gioia” è un’epistenologia ante litteram e, come tale, si propone di conservare, consegnare e restituire agli uomini tutto quanto il vino esprime ed evoca, svincolandolo sia dalla teoretica che dalla poetica. Il vino, anche stavolta, viene considerato, e pertanto trattato, nella sua potenza relazionale, nel suo istituire uno o più legami tra gli uomini e tra le discipline, consentendosi anzi di spaziare tra le cose del vino e del mondo con profondità e leggerezza. Come sempre si dovrebbe fare, appunto, per essere felici.
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