PIG: homo homini porcus
Tu chi sei?
Come rispondere in maniera esaustiva a un quesito talmente profondo e sfaccettato? Semplice, non si può. O almeno, non si può in maniera compiuta e totale.
E Pig lo dimostra.
Perché questo piccolo gioiello a firma di Michael Sarnoski è un saggio filosofico.
Pig è un grande MacGuffin, a livello letterale: il maiale che viene sequestrato a Rob (un Nicolas Cage in una delle sue migliori performance di sempre) in realtà si scopre essere morto ben prima che Rob cominci a cercarlo.
Si potrebbe legittimamente pensare che il film si sostanzi nel genere thriller con sfumature noir, e a suffragare tale tesi ci si mettono anche i personaggi: Rob e Darius, il padre di Amir, sono entrambi accomunati dalla perdita della moglie, sono cioè speculari. Rob affronta il lutto sottraendosi dal mondo e ritirandosi nei boschi; Darius inasprendo la propria acredine e fagocitando la realtà ristorativa di Portland. La trama presenta tutti gli ingredienti del giallo a enigma, ma stravolge ogni convenzione e non rispetta pressoché nessuna aspettativa dello spettatore.
Partiamo dal porcello: che la sua importanza narrativa sia relativa ce lo dice lo stesso Rob quando, parlandone con Amir, prima di incontrare Darius, gli rivela che non serve il maiale per trovare i tartufi; basta osservare gli alberi dopo che è piovuto.
Rob cerca il maiale perché “gli vuole bene”.
Se non bastasse, anche il finale alimenta la convinzione di una non-convenzionalità aperta a qualcos’altro: nel confronto finale tra Rob e Darius ci si aspetterebbe un “regolamento di conti” con spargimento di sangue; invece, dopo aver appreso della morte del maiale già al momento del sequestro, Rob non solo non si vendica, ma anzi perdona Darius e gli cucina il piatto che, assieme alla moglie, anni addietro, l’antagonista aveva assaggiato con la consorte presso il ristorante del protagonista, sostenendo: “ricordo tutti i piatti che ho cucinato e tutte le persone che ho servito”.
Quest’apertura a un elemento così inatteso e straniante come il perdono si inserisce in un quadro nel quale i tempi della narrazione sono spesi per il contesto, per i boschi, per i silenzi, per le digressioni, per tutti quegli elementi che, in un canone filmico di stampo classico, fungono da sfondo, non sono cioè al centro della narrazione.
Qui invece vengono elevati a elementi centrali perché la domanda alla base del film non è: “chi ha rapito il porcello?”, né: “cosa farò a chi l’ha rapito quando lo troverò?”; la domanda è: “chi sono io che lo sto cercando?”
Chi è Rob?
Un dropout auto-esiliatosi nei boschi per dare un senso a una vita che, senza un riflesso nell’amore, un senso non lo ha più. Pertanto la cucina diventa metafora di un atto creativo mai uguale a se stesso, figlio di quel continuo divenire e mutare che è l’esistenza stessa.
Il blocco cui va incontro Rob tanto è legato alla sottrazione di senso data dall’assenza della moglie quanto è esso stesso un atto creativo nella sua apparente immobilità, poiché scegliere di non scegliere è, nel paradosso, una scelta.
Il movimento di Rob dopo il sequestro del porcello si attua in senso circolare, con una partenza e un ritorno nello stesso identico punto, ma con una consapevolezza diversa. Non si può sfuggire da ciò che si è, da ciò che si è scelto, e Rob lo comprende fin da subito: voler bene al maiale, nella sua gratuita inutilità, è dipendente e complementare alla perdita della moglie in quanto evento inaspettato e ingovernabile. Così come la cena preparata a Darius, per ricordargli l’umanità (nel senso più pratico di “fragilità”) che accomuna ogni persona.
In fondo lo sosteneva anche Sartre: l’esistenzialismo è scelta.
Anche di non scegliere.
...segui Gianpietro.
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