Recenti studi dell’Università della California hanno coinvolto volontari della fascia di età over sixty facendoli esporre, durante la notte, a specifici sentori per la durata di 180 giorni: ne sono risultate potenziali nuove basi per la risoluzione delle ostiche malattie neurodegenerative, come la demenza senile, il Parkinson et alia.
I risultati dei test di memoria sui volontari sono stati spiazzanti: coloro che erano stati sottoposti, durante il sonno, a determinate fragranze hanno concretamente riscontrato un miglioramento della memoria ‘a breve termine’ del ben 226% rispetto ad altri che non erano stati esposti ad alcun sentore.
Inoltre hanno confermato l’evidente rapporto ancestrale tra cervello e olfatto, tant’è che potrebbero aiutare a spiegare anche il fatto che, nelle prime fasi della demenza, le persone affette iniziano a perdere la capacità di percepire i sentori.
Venendo all’esperimento succitato, “i volontari coinvolti hanno ricevuto un diffusore di aromi da mettere in camera da letto; su 43 partecipanti, 20 hanno ricevuto oli essenziali, che profumavano di rosa, lavanda, arancia, limone, eucalipto, menta piperita e rosmarino. I diffusori iniziavano a erogare le varie profumazioni quando i soggetti andavano a letto, per una durata di solo 120 minuti. Anche gli altri 23 volontari, che costituivano il gruppo di controllo, accendevano il diffusore quando andavano a letto, ma i loro diffusori erogavano solo acqua distillata rilasciando un profumo minimo e impercettibile”; i partecipanti, nessuno dei quali aveva problemi cognitivi o demenza, sono stati in seguito sottoposti a una serie di test, per valutare sia la memoria sia l’apprendimento verbale. Ebbene, le performance sono migliorate tantissimo nel gruppo di volontari esposti alle fragranze rispetto al gruppo di controllo. Tramite scansioni cerebrali i ricercatori hanno rivelato che coloro che si sono addormentati con le sette profumazioni, nell’arco di sei mesi, presentavano anche un funzionamento migliore del “fascicolo uncinato”, una sorta di percorso cerebrale coinvolto in molti disturbi psichiatrici che si deteriora con l’invecchiamento e che è collegato alla memoria.
Sconvolgente il caso di un’infermiera scozzese in pensione, tale Joy Milne, che aveva scoperto in un modo piuttosto bizzarro il Parkinson del marito ben 10 anni prima della diagnosi definitiva, a causa della di lui epidermide che d’un tratto aveva iniziato a emanare uno strano odore di legno e di muschio che lei, dotata di un naso acuto, non smetteva di percepire.
In realtà sin dai tempi antichi, il medico fiutava l’alito del paziente per capire come era il suo stato di salute generale e se questo avesse digerito o meno del sangue. Pensiamo al respiro dei diabetici che presenta un odore piuttosto dolciastro e fruttato, dovuto alla maggiore presenza di glucosio nel sangue e di riflesso anche nella saliva, mentre il paziente affetto da epatite emana un respiro – “il Foetor hepaticus”- simile al fieno appena tagliato. L’olfatto, dunque, può essere uno strumento di diagnosi.
Gli esperti del Manchester Institute of Technology hanno identificato diversi composti organici volatili che mostrano variazioni nei pazienti affetti da Parkinson rispetto a quelli sani. Questi composti, tra cui l’eicosano, l’acido ippurico e l’octodecanale, potrebbero costituire una sorta di “firma olfattiva” della malattia, presente nel corpo ancor prima che i sintomi si manifestino. Studi posteriori hanno svelato che i pazienti colpiti dal Parkinson producono sebo in eccesso, e l’ipotesi su cui si sono mossi gli scienziati è che, in queste persone, questo abbia una composizione specifica, associata alla malattia.
Mrs Milne, l’infermiera succitata, dopo non pochi dinieghi e dileggi da parte dell’incredula comunità scientifica, ha finalmente destinato questo suo dono di ‘decodificazione olfattiva’ alla ricerca: insieme a lei un team di studiosi dell’Università di Manchester ha creato un test epidermico non invasivo – un semplice tampone da strofinare sulla pelle – che parrebbe distinguere con il 95% di efficacia i casi di Parkinson in persone in attesa di diagnosi e che, si spera, possa presto essere usato in ambito clinico. Ad oggi Milne sta collaborando anche con altri scienziati per studiare se altre patologie abbiano un tipico sigillo olfattivo e che, solo alcune persone come lei con recettori olfattivi superdotati, sono in grado di cogliere.
Questa curiosa vicenda ha in seguito incoraggiato l’attenzione pubblica circa la concreta possibilità di ‘annusare la malattia’ ai suoi esordi poiché, come è noto, il Parkinson et similia sono malattie piuttosto complesse da diagnosticare tant’è che, la maggior parte delle persone quando ha una diagnosi certa, ha purtroppo già perso molto del suo patrimonio neuronale.
Un’utile collaborazione stretta fra i medici dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e gli ingegneri del Politecnico di Milano ha condotto alla creazione di un “naso elettronico”- il ‘Diag-Nose’- in grado di identificare, tramite una banale analisi di urina atta a individuare specifiche molecole volatili, con una precisione elevata, la presenza di una neoplasia alla prostata e di determinarne il grado di aggressività.
Il prototipo messo in funzione sarebbe in grado di distinguere anche fra tumori a basso o alto rischio e i primi test clinici per validare il metodo sono previsti per la fine del 2024.
“L’obiettivo finale”, ce lo spiegano Laura Capelli, Professore Associato presso il Dipartimento di Chimica, Materiale e Ingegneria Chimica “Giulio Natta” assieme al Gianluigi Taverna, Responsabile Unità operativa di Urologia dell’Ospedale Humanitas Mater Domini a Castellanza, “è portare il naso elettronico negli ospedali e nei laboratori di analisi, per supportare l’urologo nel processo decisionale di prognosi del paziente, ottimizzare il percorso diagnostico e ridurre il numero di biopsie non necessarie che attualmente vengono effettuate, aiutando altresì ad identificare prontamente i tumori più aggressivi”.
...segui Alessandra Pegrassi.
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