Un’eccezione meritevole
Non scrivo di serie. La ragione è semplice: ho poca pazienza per guardarle. Eppure ci sono dei casi in cui mi appassiono (es. Hannibal).
Baby Reindeer (ora su Netflix) l’ho vista in un giorno.
Da una parte hanno aiutato il numero e la durata degli episodi (sette da 30 minuti circa); dall’altra il modo in cui è stata messa in scena la vicenda mi ha imposto di arrivare alla fine.
Imposto, sì. Perché Baby Reindeer è un prodotto qualitativamente ottimo. La trama è nota (l’autore, Richard Gadd, interpreta il proprio alter ego Donny nella brutta vicenda che lo ha visto vittima di stalking tra il 2015 e il 2017 da parte di una donna più grande di lui), così come è facilmente intuibile il finale della vicenda (l’allontanamento/arresto di Martha).
Ciò che permette al prodotto di fare un salto di qualità è la messa in scena: il registro della serie è l’horror. Primi piani, inquadrature oblique, ambienti claustrofobici, luci soffuse, anticipazioni sul viso dei personaggi dell’orrore che verrà inquadrato poco dopo. Non ci si ferma davanti a nulla e ogni episodio si chiude (furbamente) con un cliffhanger atto a collegare l’episodio successivo.
Ma, al di là delle scelte tecniche, a lasciare basiti (in positivo) è la scrittura: man mano che gli episodi proseguono, e con essi prosegue dunque la storia, siamo messi di fronte a una successione di eventi la cui gravità legittimerebbe una scelta da parte del protagonista che non viene presa. Anzi, Donny sceglie sempre l’esatto opposto di quanto la logica (o il buonsenso) porterebbe a opzionare. È una mossa intelligente per più ragioni: da una parte aumenta la curiosità dello spettatore nello scoprire come una situazione sempre più contorta potrà risolversi; dall’altra prende una distanza dalle più immediate empatie verso la (presunta) vittima per spostare il focus dell’attenzione su qualcosa di meno consolatorio e più perturbante.
Nella puntata in cui scopriamo lo stupro subito da Donny, le carte in tavola si rimescolano e le decisioni su come è stata gestita Martha acquistano un valore diverso. Perché, per quanto spietato, Donny stesso ammette di provare un’attrazione morbosa e, per certi aspetti, irrinunciabile verso la sua carnefice, giustificandone i comportamenti ed entrando così in quella stessa ottica distorta che spinge Martha ad agire come agisce.
La differenza, però, sta nella consapevolezza: nella puntata della finale di cabaret, dove Donny anziché esibirsi in una performance comica confessa al pubblico, e a se stesso, la propria vergogna per quanto gli stia capitando, Donny, riferendosi alla rottura con Teri, sostiene una verità che toglie allo spettatore facili appigli consolatori: “…al mondo c’era una cosa che amavo più di lei (Teri). Solo una cosa. […] Odiare me stesso.”
Con questa frase la retrospettiva su quanto si è visto fino a quel momento si arricchisce di un significato nuovo: chi è davvero Martha per Donny?
Al di là di inquadrarla come una stalker, fornendo al personaggio un passato relegato esclusivamente a dei precedenti reati dello stesso tipo, di Martha non sappiamo nulla. Nulla sul suo passato, nulla sua infanzia, nulla sulla sua famiglia, nulla sull’attendibilità dei propri titoli. Nulla. Martha non è un personaggio con un’evoluzione. Martha è e sarà per tutta la serie solo un carattere, una maschera, un personaggio-funzione, qualcosa, cioè, che da nemesi si trasforma in strumento per ribaltare il concetto implicito di protagonista/antagonista, riportando l’attenzione su Donny.
Superate le semplificazioni del caso, infatti, resta Donny: lui accetta Martha nella sua vita, lui mente a Teri, lui mente alla propria famiglia, lui non affronta Darrien dopo lo stupro (almeno fino al finale), lui permette a se stesso (più o meno volontariamente) di farsi fagocitare in un turbinio di sabotaggi e delegittimazioni per sentirsi al centro di qualcosa non essendo al centro nemmeno di se stesso. E in questo Gadd/Donny ci va giù pesante, non risparmia nulla, non cerca la facile via della pietà per ingraziarsi lo spettatore dallo sguardo sintetico.
In più occasioni Donny ammette di sentire la mancanza di Martha, del tormento che questa gli dava, arrivando addirittura a masturbarsi al suo pensiero pur di sentire qualcosa. Il problema è che Martha, e Teri, sono quello che sono. Non fingono una natura diversa da quella che manifestano. Chi finge, almeno fino all’ultima puntata, è Donny stesso. Non per volontà dolose verso gli altri, ma per autogiustificarsi verso se stesso.
Nel purtroppo dimenticato Al di là della vita (1999) di Martin Scorsese viene pronunciata questa frase: “nessuno ti ha chiesto di soffrire, è stata una tua idea”. Donny agisce esattamente in questa maniera: sceglie di soffrire dopo essere stato abusato in quanto il dolore è l’unico luogo conosciuto in cui può definirsi. Ma questa scelta rende immobili chi la prende e porta a vedere con occhio meno accusatorio le azioni di chi gli gravita attorno.
Il focus si concentra dunque sulle scelte, sull’autodeterminazione personale e sulle conseguenze, anche in termini di solitudine, che queste comportano.
Nel bel finale di stagione Donny torna da Darrien e, sebbene il monologo/confessione sullo stupro sia diventato virale, non fa accenno all’accaduto tra i due. Anzi, Donny accetta un lavoro da Darrien, uscendo dall’appartamento sconvolto per ragioni non chiarite ma che potrebbero riguardare sia il non essere riuscito a emanciparsi dall’ala manipolatoria dell’uomo sia la volontà di trovare un senso (anche economico) alla sofferenza patita, regredendo però al punto di partenza. E nell’ultima scena, con l’offerta della bibita da parte del barista sconosciuto, speculare e circolare a quanto avvenuto a inizio serie tra lui e Martha a ruoli invertiti, si universalizza un potenziale cambio di prospettiva alla vicenda che sfuma i confini di giusto/sbagliato, bene/male per confermare come, alla fine, la volontà individuale stia alla base della gestione degli eventi che ci capitano e su come indirizzare la nostra esistenza.
Ma se le coordinate mancassero?
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